Cara Madre Terra: “Casa nuova, vita nuova”
Una difficile missione, se non quella di fermare il degrado della Terra cercando in tutti i modi di garantire un futuro migliore al prossimo. Tutto dipenderà dalle nostre scelte, ed in questa rubrica cercheremo di sensibilizzarci verso un Mondo più pulito ed in simbiosi con la natura.
A cura di Roberta Monagheddu
Ecco come essere più sostenibili quando si va a vivere da soli o in compagnia
Convivo da un anno e mi piacerebbe condividere con voi la mia esperienza in termini di sostenibilità. All’inizio sarete super entusiasti di entrare nella casa nuova e ovviamente comprare tutte quelle cosine che immaginavate da tanto tempo.
Il mio primo suggerimento è: fermatevi un secondo a pensare cosa DAVVERO possa servire. Avete la possibilità di un nuovo inizio, cogliete l’occasione e scegliete quando possibile il MINIMALISMO: poche cose e funzionali. Questo vi tornerà utile anche se, come me, siete dei disordinati patologici, sarà molto più difficile creare caos se ogni cosa ha un suo posto e ogni oggetto ha un valore.
Prima di comprare qualcosa, CERCATELO USATO. Ormai ci sono tantissimi posti dove poter comprare usato ed in ottime condizioni come se fosse nuovo, da siti online come Subito o Marketplace, oppure in negozi fisici come la catena de Il Mercatino, o ancora vari mercatini open air. Di solito si risparmia e si ha l’occasione di dare una nuova vita a qualcosa che diversamente sarebbe andato gettato via. E anche se qualcosa di usato potrebbe avvicinarsi al prezzo dell’oggetto nuovo, preferite comunque l’usato se in buone condizioni. Ricorda: non lo fai solo per il prezzo, ma anche per la sostenibilità. Noi abbiamo trovato divano, tavolo e sedie, letto, armadio, in ottime condizioni e decisamente a prezzi inferiori al nuovo.
Quando proprio doveste andare sul nuovo, cercate di fare SCELTE CONSAPEVOLI: dove possibile riducete l’acquisto di oggetti in plastica o simili, quando possono esserci benissimo alternative più sostenibili (es. la grattugia: posso fare a meno dell’impugnatura in plastica e sceglierne una tutta metallo? Certo che sì ?).
Non dimentichiamo i PARENTI! Potrebbero voler fare gentilmente qualche pensierino per la casa nuova, anticipateli chiedendo qualcosa di utile, magari dando qualche suggerimento che rispecchi il vostro stile di vita e le vostre necessità. Poche padelle ma di buona fattura, due paia di lenzuola, due set di asciugamani… Per esempio ho chiesto specificatamente che non ci fosse regalata la macchinetta del caffè, che avrebbe portato a un abuso di capsule, che a sua volta avrebbe condotto alla creazione di rifiuti e costi non necessari. Ho poi ereditato una bellissima supermoka di mia mamma che altrimenti sarebbe rimasta nel suo armadio inutilizzata, mentre per me è stata perfetta! E lei ha fatto un passo in più verso il minimalismo, liberandosi di qualcosa di inutilizzato e dandole una seconda chance.
Non comprate con il principio di “E SE POI NON BASTA”? Inutile avere 12 o 18 piatti fondi, piani, piattini, bicchieri, posate a riempire scaffali e cassetti quando nella vita di tutti i giorni se ne usano 6 al massimo. In caso di un gran numero di ospiti vedrete, un modo lo si trova – come chiedere in prestito a parenti vari che non vedono l’ora di liberarsi di piatti che sono rimasti in credenza a far niente per troppo tempo, oppure se gli amici si abitueranno al vostro stile di vita non si stupiranno quando chiederete di portare un paio di piatti al posto del dolce?.
Per alcune cose non dimenticate di prendere in considerazione l’AUTOPRODUZIONE, ormai ci sono tantissimi tutorial, dagli addobbi per Natale, alle creme, allo yogurt, ecc ecc.
Scegliete materiali per la cura della casa e della persona con MENO PACKAGING e MENO INGREDIENTI possibile. Un primo grande e immediato switch potete farlo passando dagli shampoo in contenitori di plastica a shampoo solidi (es. Ethical Grace). Ah! Qualora doveste ritrovarvi ad acquistare online, cercate di fare un ordine unico e più grosso così da ridurre il numero di consegne (ovviamente questo non vale per alcuni dei più grossi e-commerce, che consegnano oggetto per oggetto senza raggruppare la spedizione…).
E quando arriva l’ora di “procacciarsi” il cibo…preferite i MERCATI. Se andrete dai contadini troverete frutta e verdura locali e di stagione, uova (anche senza la confezione in plastica), legumi sfusi (portate il vostro sacchetto riutilizzabile!), formaggi d’alpeggio ecc ecc…un mondo da riscoprire (trick: andate sul presto per trovare meno persone).
Ognuno trovi il proprio significato di felicità, che non starà mai nel possedere e accumulare cose.
PsiCHIcoline: “Le parole incontinenti”
“Le nostre parole sono spesso prive di significato.
Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate,
svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole.
Le abbiamo rese bozzoli vuoti.
Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole.
Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore.
E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.”
GIANRICO CAROFIGLIO
Negli ultimi anni capita sempre più spesso di leggere o ascoltare situazioni in cui qualcuno esprime pensieri, esternazioni, commenti, insulti ed offese più o meno espliciti per poi rendersi conto, per via del clamore negativo di ritorno, di avere detto qualcosa che ha suscitato sdegno, clamore, denunce, ecc. Di questa modalità comunicativa oramai non ne è esente quasi nessuno, persone comuni ma anche politici, governanti, persone dello spettacolo, della cultura, proprio tutti, nessuno escluso. Le parole sembrano ad un tratto fluire in modo incontinente, senza filtri, senza riflessione senza appunto contenimento, evacuate come se fossero proferite senza essere state pensate, trattenute, “mentalizzate”. Le reazioni inducono poi, a volte, a fare dietrofront con frasi del tipo: “non pensavo che si arrabbiasse, che avrei ferito, offeso” ecc… Anche nei colloqui psicoterapeutici (di cui ricordo invece il significato: ossia la cura con le parole) ascolto tantissime storie di persone che mi raccontano di dialoghi tumultuosi, tra partner, tra genitori e figli, tra fratelli, tra sorelle, tra amici in cui le parole vengono dette in modo violento e offensivo ma in cui spesso percepisci che molte volte vengono assorbite all’interno di quel sistema familiare/relazionale in modo acritico, come una modalità comunicativa “normalizzata”: “ sclerare”, “smattare” “impazzire” sono termini usati per definire degli episodi in cui si perde il controllo e la comunicazione; il dialogo cede il posto alle parole urlate, allo sfogo fine a se stesso. Il retro pensiero sembra essere quello del “sono solo parole” come arrivano poi se ne vanno; non rimangano, non sedimentano, non hanno bisogno nemmeno di cicatrizzare perché se ne sminuisce la capacità ferente. E se questo accade nelle relazioni interpersonali ancor di più accade in quelle virtuali, dove l’altro è ancor più distante empaticamente, per cui nella legittimità del libero pensiero, viene scardinata ogni forma di rispetto e di limite che le parole, anche se scritte dovrebbero (e qui uso, ahimè, il condizionale) continuare ad avere.
Questa forma dunque di comunicazione aggressiva la ritroviamo frequentemente su internet nei vari social network, forum, blog e chat dove, rispetto al mondo reale, spesso assume una forma molto volgare e violenta perché non c’è un coinvolgimento diretto (i famosi leoni da tastiera) per cui l’anonimato in molti casi consente alla persona aggressiva/invidiosa di sfogare più liberamente i propri impulsi distruttivi. Molte cose dette o scritte su internet non verrebbero di certo riproposte in un’interazione faccia a faccia (eccezione fatta per il gruppo come branco). Esempio: Ciao come stai? Risposta: “Ma sparati da quanto fai schifo e sei brutta!”
Ma cos’è che scatena tale aggressività verbale? In primis, l’aggressività verbale, così aggressività in generale, spesso scaturisce dalla frustrazione, cioè da una situazione nella quale alla persona viene ostacolato o impedito il raggiungimento di un obiettivo o di una gratificazione considerati importanti. Un altro fattore scatenante dell’aggressività verbale può essere rappresentato dall’assenza o dalla carenza di un’adeguata competenza assertiva, intesa come la capacità di sostenere e difendere in modo efficace le idee precedentemente proposte. Spesso cioè le persone hanno delle basse competenze argomentative e sentono l’esigenza di rispondere a ciò che viene espresso dagli altri e di sostenere le proprie opinioni, ma non possiedono elementi per farlo in modo convincente oppure non sono di grado di esprimerli in modo adeguato. Alla base di tale comportamento si cela spesso una persona insicura e fragile che attacca per non sentire inconsciamente il peso della propria incapacità comunicativa e persuasiva. Infine l’aumentare degli aspetti narcisistici sta mutando ciò che fa soffrire di più molte persone, ossia oltre la maggiore vulnerabilità e il sentimento di vergogna, è aumentato l’aspetto emotivo dell’invidia ossia avere un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede (persona o oggetto) oppure sentire il desiderio di distruggere ciò che l’altro ha o rappresenta. L’individuo non ha qualcuno/qualcosa e vorrebbe ardentemente averla. In alcuni casi, nell’invidioso/a, esiste il desiderio che la persona invidiata perda l’oggetto (bene o affetto) senza che l’invidioso ne tragga poi effettivo vantaggio. Da qui il vedere e il bramare tutto ciò che gli altri hanno, spesso in maniera falsata e artificiosa, accedendo ad una infinita e innumerevole platea che esibisce capacità, bellezza, fama, potere, con un semplice clic, per poi riportati ad una realtà vissuta come svilita e mortificante. L’aspetto dell’invidia non viene quindi usato in modo propulsivo e costruttivo per raggiungere ciò a cui si ambisce ma non si non ha, ma nel sminuire e criticare, umiliare e distruggere ciò che altri hanno.
Lo psicologo Paul Watzlawick diceva che le parole, il modo di dirle, il modo di comunicare ci indica anche il tipo di relazione che c’è fra le persone: se la relazione è basata sulla violenza anche le parole saranno violente. Se una relazione è basata sull’indifferenza anche le parole saranno espressione di indifferenza e noncuranza. Se la relazione è caratterizzata dall’ invidia anche le parole saranno invidiose. S. Freud, diceva: “In principio parole e magia erano una sola cosa, e perfino oggi le parole conservano molto del loro potere magico. Attraverso le parole ognuno di noi può dare a qualcun altro la massima felicità oppure portarlo alla totale disperazione; attraverso le parole l’oratore trascina il pubblico e ne determina giudizi e decisioni. Le parole suscitano emozioni e sono il mezzo con cui generalmente influenziamo i nostri simili”
Kaihlil Gibran scriveva negli anni ‘20 a proposito del Conversare: “Voi parlate quando cessate d’essere in pace con i vostri pensieri; E quando non riuscite più a soffermarvi nella solitudine del cuore vivete sulle vostre labbra, e il suono diventa svago e un passatempo. In molte delle vostre conversazioni il pensiero è per metà ucciso. Poiché il pensiero e un uccello degli spazi, che nella gabbia delle parole può sì spiegare l’ali ma non volare. Taluni tra voi cercano i loquaci perché temono la solitudine. Ne1 silenzio della solitudine si osservano nudi e vogliono allora fuggire via. Ci sono poi coloro che parlano e senza volontà o intendimento svelano verità che loro stessi non comprendono. E ci sono quelli che hanno in sé la verità, ma non le dicono con le parole. É in seno a costoro che lo spirito alberga nel ritmico suo silenzio. Quando lungo la via o nel mercato incontrate l’amico, lasciate che sia lo spirito a muovervi le labbra e a guidare la vostra lingua. Lasciate che la voce nella vostra voce parli all’orecchio del suo orecchio; La sua anima tratterrà la verità del vostro cuore come si rammenta il sapore del vino. Quand’anche il colore è dimenticato e il bicchiere più non è”.
PsiCHIcoline è una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
“Reparto Covid-19, il nuovo libro di Graziano Di Benedetto”
Lo scrittore Graziano Di Benedetto presenta il suo ultimo lavoro scritto, “Reparto Covid-19”. Un infermiere riceve la comunicazione che di lì a poco modificherà la sua vita famigliare e il suo lavoro. Chiamato d’urgenza al reparto Covid di un ospedale piemontese, si trova di fronte a una realtà nuova, carica di incognite e di paure che superano i muri delle stanze dove per tanti si consuma la tragedia della morte. Graziano Di Benedetto racconta, o meglio, documenta questa storia dall’interno, attraverso i corridoi e nei locali silenziosi dove le persone attendono di morire o di salvarsi. Non c’è tempo per soffrire, solo per assistere fino alle ultime fasi, molte volte donne e uomini spaventati. Il sibilo dei respiratori fa da colonna sonora a immagini da incubo, qualche volta da sogno, in un mondo che per tanti è inimmaginabile. Nella paura e nel sacrificio c’è spazio per l’amore, la compassione e le passioni che rendono la vita e anche la morte meno intollerabili.
L’autore nei suoi lavori mescola finzione e realtà. Sono opere di finzione anche se alcune caratteristiche dei protagonisti le ricalca su intere parti di vita vissuta. Reparto C-19 è stato scritto nel corso dell’emergenza sanitari della primavera 2020. Le storie che contiene sono reali, quindi, nel senso che sono state viste e vissute personalmente da chi le racconta. Ibridazione tra ciò che è esperienza diretta delle cose e finzione è una cifra di Graziano Di Benedetto.
Ma perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? “Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere” le parole dello scrittore.
TE LO DICO IN POESIA: “Il massaggio del cuore”
Una poesia che trova ispirazione dal massaggio thai o massaggio thailandese, una forma di massaggio originaria della Thailandia. Secondo la leggenda, la diffusione delle tecniche di massaggio in Thailandia avvenne grazie alla codificazione operata dal medico indiano Shivago Kumar Baj, indicativamente, intorno al V secolo a.C. (avanti Cristo). Questa figura viene ancora oggi considerata in Thailandia come il padre della medicina. Tuttavia, nonostante le leggende che circolano in merito, le origini di questa forma di massaggio risultano ancora oggi poco chiare. Il massaggio thai si caratterizza per l’esecuzioni di manipolazioni di diverso tipo, fra cui pressioni, stiramenti e allungamenti, che vengono associate a tecniche di yoga, cosiddetto passivo. Analogamente a quanto avviene per molti altri tipi di massaggi orientali, anche quello thailandese si prefigge l’obiettivo di apportare benefici alla persona nel suo insieme, non solo a livello fisico ma anche a livello mentale. In Thailandia, il massaggio thai è solitamente considerato parte della medicina tradizionale thailandese.
Sento battere dentro me il cuore rosso di stupore la meraviglia dell'amore è entrata rigogliosa dentro te La tua anima gentile sapiente alchimia di arte antica che sa muovere le corde giuste e riconciliare la mia mente senile Sei tu figlia del mondo a guarire il mio universo e riconquistare quello perso attraverso il tocco delle mani Immenso è così il viaggio del corpo addormentato che rinasce con la semplicità dell'antico sapere rinnovato Ha ragione il fato!
Tiziana Calamera 15 Luglio 2020
C’è un linguaggio con cui spiegare gli eventi e il mondo che ci circonda in modo empatico e riflessivo: la poesia, che interpreta in profondità il nostro legame interiore con esso e muove le corde emotive alla ricerca di intuizioni concrete che ci fanno evolvere. Sarà un viaggio alla scoperta del proprio essere, che vi invito a fare con me.
A cura di Tiziana Calamera
Poetessa
“La cattiveria. Infermiere in corsia”
Lo smonto notte, unico “riposo,” non era sicuramente bastato a placare la stanchezza, ma l’emergenza prevedeva l’ottimizzazione di ogni risorsa umana, quindi oggi, nuovamente al lavoro. Turno del mattino. Indosso nuovamente la tuta, più pratica rispetto ai jeans, alla camicia e al maglioncino. Ovviamente era già stata lavata in lavatrice. Il turno mattiniero mi spaventava un po’, è il turno dove vi è la maggior parte degli esami. Vi è la visita medica, l’aggiornamento delle cartelle e gran parte dell’assistenza di base. Uscire così presto al mattino, verso le sei, è bello. Soprattutto quando vi è questo rumoroso silenzio, che riempie quasi ogni pensiero, quasi. L’itinerario è percorso a memoria. L’alba è uno spettacolo della natura. Tutte le sfumature del giallo e dell’arancione invadono piacevolmente il mio orizzonte. Eccomi poco dopo sotto il nosocomio. Nonostante l’emergenza il parcheggio è come sempre un miraggio. Incrocio alcuni colleghi, tutti come me indossano la mascherina, stiamo a distanza anche per strada, giusto che sia così. Le regole sembrano normale abitudine per noi. Soldatini operosi. Distanti anche per timbrare il cartellino. Nessuna parola fra di noi. Lo spogliatoio maschile è silenziosissimo. Il cigolio inquietante di qualche armadietto che si chiude o si apre fa capire la presenza di qualche altro collega. Entriamo quasi ad occhi bassi, ci proteggiamo l’uno dall’altro. Vi è profondo rispetto fra noi in prima linea. Inutile parlare o socializzare, non c’è tempo e non c’è voglia. Anime inquiete, anime inermi forse, davanti all’infinitamente piccolo. Ammetto di avere paura adesso, più di quando sono immerso nel reparto. Ora ogni domanda non ha risposte precise. Non ha proprio risposte. Evito accuratamente pensieri negativi, appesantiscono l’anima e non permettono di vivere bene. Ma si vive bene ora? Impossibile non pensare a chi ho a casa, a chi non ho potuto salutare prima dell’emergenza, a chi non ho potuto abbracciare. Mi rimbalza in mente il proverbio coniato poco tempo fa, “la Cina, non è vicina,” ma caccio via anche questo di pensiero, ormai è un continuo evitare. Evitare le persone negative, evitare pensieri negativi, evitare, per quanto possibile di contagiarsi e di contagiare. Camminiamo come fantasmi lungo i corridoi angusti, ognuno verso la propria destinazione. Giungo al Covid 1. La striscia di nylon mi attende. Oggi siamo cinque in totale, tre infermieri e due O.S.S., operatori socio sanitari. Ascolto quasi attentamente la consegna dei colleghi della notte, i loro visi sono segnati da profondi solchi, solchi che già conosco, da profonda stanchezza. Mi sento un po’ a disagio, sono il più anziano del gruppo e paradossalmente il più inesperto. Ma la mia inesperienza tecnica è compensata da altro. Vedo negli occhi non coperti ancora da copri occhi o schermi, una velatura che evidenzia pianto recente. Qualche trucco sbavato e corretto, gesto rischioso toccarsi gli occhi. Io per formazione o per carattere o per l’età, quando sono dentro una situazione, rimango “sul pezzo”. Questa mia caratteristica è invidiata dai colleghi che mi conoscono da tempo, qui non mi conosce nessuno. Oggi tutti colleghi con cui non ho mai lavorato in passato, non conosco il loro percorso formativo, nulla della loro vita, neppure i loro nomi. “Buongiorno a tutti, sono Graziano, vengo dal territorio, circa trent’anni di psichiatria, ma ho già fatto una notte qui, oggi mi vesto per primo, cosi seguo voi che siete più esperte,” non vedo i sorrisi perché le mascherine chirurgiche coprono le bocche, ma vedo gli occhi sorridere. C’è bisogno di tranquillità, c’è bisogno di placare l’ansia, la tecnica verrà dopo. Inizio la vestizione. Oggi i presidi sono diversi. Incredibile come nello spazio di una notte e di un giorno le cose possano cambiare. In tutti i sensi. Oggi ho una tuta bianca, che comprende anche un cappuccio. Ovviamente sotto il cappuccio dovrò indossare la cuffia. Ai piedi copri scarpe e calzari. Verde brillante. Fisso i calzari con del cerotto, sembro un esperto, sembro… compiuti tutti i rituali indispensabili, indosso la visiera, non ho copri occhiali. Non è necessario neppure indossare il camice sopra. Il mio aspetto è quello di un muratore dello spazio, ma mi muovo bene, certo, le mascherine stringono, la visiera anche ma mi sento protetto, quasi pronto. Con me si veste una collega di 26 anni, Erika, ed un O.S.S. Valeria. Rimarranno nella zona pulita le altre due colleghe. Erika ha due occhi azzurri quasi trasparenti. Tiene sempre lo sguardo basso. Proviene da una rianimazione pediatrica. Due mondi diversi uniti contro il mostro. La psichiatria e la pediatria. Viene naturale pensare come le nostre esperienze diverse possano combattere assieme. Meglio non pensare. Abbiamo molto da fare. Lei è al secondo mattino, io al primo. I quaderni della terapia li avevo già visti di notte. Mi rendo conto di come la mia vista poco acuta sia un problema. Quadratini piccoli su cui scrivere valori o apporre sigle. La visiera però è più facile da gestire rispetto ai copri occhiali. Seguo a ruota Erika che entra in una camera dove sono presenti due uomini e una donna, divisi da teorici paraventi, “Buongiorno cari, come va? Avete dormito questa notte?” la sua voce era accudente, nonostante fosso filtrata dalla mascherina. Io mi limitai con un semplice buongiorno. Cercavo di tenere il fiato, prezioso come non mai. Nessuna risposta da parte dei pazienti, solo qualche cenno con la mano. Troppa fatica a parlare, il fiato è ancora più prezioso per loro. Quanta dolcezza vi è in Erika, quanta paura ben nascosta. Si muoveva elegantemente fra le varie sofferenze. Sicuramente più pratica di me regolava maschere di ossigeno ed occhialini. Io osservavo, non ponevo domande davanti ai pazienti, non volevo far notare la mia imperizia. Procedevamo bene. Terapie endovenose da ripristinare, cure igieniche, e molte altre tecniche invasive e non. La maggior parte dei ricoverati, respirava a fatica, la fame d’aria è terribile anche solo da vedere, figuriamoci da provare. Il sibilo dell’ossigeno che esce dalle maschere o dagli occhialini è fastidioso. Lo collego al mostro invisibile. Invisibile ma presente. Invisibile ma potente. Il sibilo anche se flebile, penetra nelle orecchie, nonostante siano coperte dalla cuffia e dal cappuccio. Comincio ad essere stanco. Sono circa le tredici. Non bevo, non mangio, non vado in bagno dalle sei di questa mattina. Le mani coperte da tre guanti, reclamano aria. Ma non posso, non devo. Ci chiama la collega dalla zona pulita. “Dai ragazzi, ora entriamo noi due, avete diritto ad un cambio, ma uno di voi deve rimanere però, meglio due infermieri nella zona infetta,” “Rimango io dentro, preferisco così, più rimango più divento pratico.” L’invito fu accolto molto volentieri, ormai ero in gioco e volevo giocare fino in fondo. Rimasi solo in reparto per circa 20 minuti, il tempo della vestizione. Un tempo eterno. Solo con venti persone bisognose di tutto o quasi. Fortunatamente squillò solo qualche campanello con problemi di facile risoluzione. Entrarono Valeria e Sara. Entrambe giovanissime. Valeria si era laureata da poco. Aveva già avuto esperienze lavorative, ma in maniera discontinua. Anche lei, come Francesca, sembrava un fuscello dentro la divisa, il camice e la tuta. I suoi occhi scuri mi ricordavano in maniera impressionante mia figlia maggiore. All’estero per studi. La vidi l’ultima volta i primi giorni di febbraio, prima dell’emergenza, la accompagnai all’aeroporto. Si parlava già di Coronavirus, ma tutto era lontano. Ci eravamo sentiti la sera prima, via telefono, assieme al resto della famiglia. Una video chiamata in realtà. Entrambe mi sembravano inermi di fronte al mondo, ma questa era la mia emozione dettata dalla paternità, non dalla realtà. Almeno quella che vedevo. Dirottai il mio pensiero verso dati di realtà che mi tranquillizzavano. Se mia figlia era fuori per studi, prossima alla laurea, con esperienze lavorative e di formazione in Italia ed all’estero, era assolutamente in grado di affrontare l’emergenza e lo stesso pensiero era rivolto a Valeria. Collega non figlia. Competente, adeguata alla situazione, pronta a tutto, anche all’emergenza. La visita medica era ormai finita. Rimaneva da fare un solo prelievo, un controllo ad un paziente non grave, una persona che respirava autonomamente, senza l’ausilio di maschere, o cannule nasali. Insieme entrammo nella stanza. Una stanza occupata da tre letti con pazienti automi. L’unica stanza. Il loro tampone aveva dato esito positivo, ma il virus per motivi ancora sconosciuti era stato meno aggressivo. Valeria si avvicinò al paziente con tutto l’occorrente per il prelievo. “Buongiorno Mario, tutto bene? Devo fare un prelievo, un controllo, nulla di grave. “Sì certo“ rispose Mario. Mario aveva 57 anni, due più di me. Questa situazione mi turbava alquanto. Praticamente coetanei, posti dal destino in situazioni opposte. Mario aveva molti capelli, al contrario di me, calvo e rasato. Guardavo con invidia i suoi capelli, anche se visibilmente tinti. Mi avrebbero fatto comodo come utile cuscinetto per gli elastici delle mascherine. Era sdraiato nel letto e sorrideva, senza mascherina sul volto, era appoggiata sul comodino. Grandi occhi azzurri osservavano con interesse Valeria e me, che non avevo ancora parlato e mi ero posto lateralmente, per non essere invadente nei confronti del paziente. Valeria con tono molto gentile, disse, “Per piacere Mario, potrebbe indossare la mascherina? Il nostro protocollo prevede questo, è una sicurezza per tutti.” Nessuna risposta da parte di Mario. Valeria rinnovò l’invito. “Mario potrebbe mettere la mascherina? Cosi posso fare il prelievo con tranquillità.” Mario rispose, “Da qualcuno l’ho presa sta roba, che mi frega degli altri. E poi la mascherina tu c’è l’hai.” Valeria non rispose nulla, rimase immobile, dalla mia posizione riuscivo a vedere i suoi occhi, coperti dai copri occhiali. Li notavo appena, ma quel poco mi bastava. “Valeria, fai fare a me il prelievo, è da anni che non ne faccio più, Mario ha delle belle vene mi sembra, dai che provo.” Silenzio interlocutorio. Quindi mi avvicino e prendo l’arcella, cioè il piccolo contenitore dalle mani di Valeria. Immediatamente Mario, si siede sul letto, allunga la mano verso il comodino e afferra la mascherina. La indossa in fretta e furia. Tiene lo sguardo basso. “Stia pure sdraiato, cosi ho più spazio nel letto, grazie,” ribadii io incalzante, ma mantenendo sempre un tono garbato. Mario non si aspettava una risposta del genere, e soprattutto una velocità di reazione tale da impedire altre risposte. Ormai sono a pochi centimetri da lui. Valeria ha fatto spazio. “Non abbia paura Mario, le sue vene sembrano belle. “Mario continua a tenere gli occhi bassi. Forse si è reso conto di ciò che ha detto, di quanto ha ferito Veleria, me e l’intera umanità. Posiziono il laccio. Picchietto sul braccio per fare inturgidire le vene. “Non sono cosi belle,” penso fra me e me, ma ormai è fatta. Tolgo il piccolo involucro che ricopre l’ago. Lo guardo con attenzione. La mano non mi trema è in difficoltà per via dei tripli guanti e anche per l’offesa ricevuta. Picchietto ancora. Mario è più nervoso di me. Io in realtà sono tranquillo. Ho quasi fermato le emozioni. Per ottenere certi risultati in certi momenti si deve fare così. Complicato, ma non impossibile. Con il pollice della mano sinistra tiro la pelle del braccio, con l’altra mano afferro l’ago. Un gesto delicato e l’ago penetra la pelle e entra nella vena, lo vedo dal sangue che si insinua nel tubicino. Le provette si riempiono in fretta…tolgo l’ago, metto il cerotto, mi giro e vado via, Valeria mi segue. Non un saluto. Non un cenno da parte nostra. Usciamo dalla stanza lasciandoci alle spalle la cattiveria. Giunti dinanzi al carrello, Valeria mi ringrazia. Vedo i suoi occhi umidi. “Grazie a te” rispondo io. “Dai, andiamo avanti, non ci ferma nessuno…
Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.
A cura di Graziano Di Benedetto
Scrittore – Attore
COMING SOON: “Intervista a Floriana Porta, la sua poesia e la sua pittura si intrecciano in un viaggio coinvolgente.”
Il Chisolino Online è fiero di annunciare con piacere un’intervista di prossima uscita insieme alla poetessa e pittrice Floriana Porta, condotta da Tiziana Calamera nella sua rubrica “Te lo dico in poesia”.
Poesie e acquerelli sono il suo pane quotidiano, intrecciando le due arti in un viaggio coinvolgente. La sintonia tra i due percorsi poetici di Tiziana e Floriana si fondono in un parallelismo emozionale che ci porta a conoscere i mondi più profondi della nostra anima.
Un prezioso regalo per i nostri lettori.
Continuate a seguirci.
TE LO DICO IN POESIA: “Il gabbiano”
Dal 18 maggio è venuto il tempo di spiccare il volo di nuovo, ognuno aprendo le proprie ali e seguendo la propria rotta. Qualcuno nel frattempo ha spiccato l’ultimo volo, quello che non terminerà più. Dedico questa poesia in particolare al popolo italiano, che sappia di nuovo lasciare il suo nido, in questi mesi vissuto come rifugio e protezione per ritornarci cresciuto e più forte di prima e grato per la protezione che offre. Siamo nati per rinascere, ogni volta in modo nuovo. Buon inizio a tutti.
Ti guardo dall’alto del mio mondo,
appollaiato su questo lampione,
oh uomo della terra,
che ti meravigli e mi guardi estasiato
quando volo nello sconfinato cielo azzurro …
Qui mi riposo e chiudo le ali per un momento
e tu sei sorpreso, ti fermi e aspetti,
osservi il mio sguardo regale, immobile, assente …
Non ti sembra vero
che un minuto prima e uno dopo
io possa farti sognare mondi sconfinati,
formando lassù cerchi colorati con le ali,
il mio garrito evoca nel tuo animo
il senso di libertà che provo …
La mia posa è sorpresa per te
e mi rispetti nell’osservarmi,
tendi la mano verso me,
vorresti toccarmi, ma non lo fai,
per non interrompere la magia del silenzio,
pacato è il momento …
Che penserò mai di te,
oh uomo della terra,
che da sempre provi ad imitarmi per provare l’ebrezza del volo
e sperimentare l’immensità del cielo,
del mio cielo … Tu sei prigioniero della gravità
e non sai cos’è la leggerezza,
il lasciarsi trasportare dal vento,
con le ali spiegate e giocare coi fratelli,
posandosi sul filo d’acqua del mare,
puoi solo immaginare, desiderare, sognare …
Continua a pensarmi così,
un dio del cielo,
che eternamente protegge e prepara te, uomo,
a vivere quel giorno, quell’unico giorno
in cui riuscirai a spiccare il tuo solo,
vero, immenso volo infinito …
Tiziana Calamera Luglio 2017
C’è un linguaggio con cui spiegare gli eventi e il mondo che ci circonda in modo empatico e riflessivo: la poesia, che interpreta in profondità il nostro legame interiore con esso e muove le corde emotive alla ricerca di intuizioni concrete che ci fanno evolvere. Sarà un viaggio alla scoperta del proprio essere, che vi invito a fare con me.
A cura di Tiziana Calamera
Poetessa
PINEROLESE WILD: “Il Gruccione”
Foto scattate in località: sponde del torrente Chisola al confine tra i Comuni di None e Volvera.
Il nostro territorio ricco di campagne, corsi d’acqua, boschetti e cespugli ci offre la possibilità di osservare parecchie specie animali in un ambiente molto Wild, libero ed a pochi passi da casa, una sorta di Km0.
Oltre alle solite specie osservabili tutto l’anno come germani, cormorani, aironi, poiane, in questo periodo le migrazioni ci permettono l’osservazione anche di altre specie, in questo caso parliamo del Gruccione (Merops apiaster, ordine dei coraciiformes, famiglia dei meropidae).
Il Gruccione può raggiungere una lunghezza di 25 – 29 cm, considerando anche le penne della coda, particolarmente allungata, mentre l’apertura alare può raggiungere i 40 cm ed il peso di 50/70 gr. Il fondo della livrea appare castano, sul dorso, ed azzurro nel ventre, ma offre anche sfumature di giallo, verde, nero, ed arancione. Il becco è nerastro, lungo e leggermente ricurvo verso il basso. Le zampe sono marrone – grigiastro. I sessi sono fra loro molto simili e difficilmente distinguibili.
Diffuso prevalentemente nel bacino del Mediterraneo, il Gruccione è nidificante alle nostre latitudini, mentre lo svernamento avviene, dopo un lungo viaggio nell’Africa posta a sud del Sahara. Predilige ambienti aperti con vegetazione spontanea e cespugliosa con alberi sparsi e tralicci, presso corsi fluviali, boschi con radure. Durante le migrazioni è frequente anche in zone umide e litorali. In Italia le colonie di nidificazione sono concentrate quasi esclusivamente in pianura e collina. La specie giunge nel nostro paese tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, per ripartire ad agosto inoltrato.
Si nutre prevalentemente di insetti catturati in aria con sortite da un posatoio. Quando si tratta di insetti dotati di pungiglione, come le api, di cui è ghiotto, questi vengono ripetutamente colpiti su una superficie dura, con l’ausilio del becco.
Nidifica prevalentemente presso scarpate lungo fiumi, in cave di sabbia, attive o abbandonate, in ambienti agricoli con boschetti sparsi, in vaste radure, in arbusteti con paretine sabbiose, vigneti, dune sabbiose, pascoli, steppe. Tipicamente, il nido è costituito da un profondo cunicolo, anche fino a 3 – 5 mt, ove la femmina depone 5 – 8 uova di forma sferica. Entrambi i sessi si occupano della cova, che dura circa 20 giorni.
Di solito la specie effettua non più di una covata l’anno: se una coppia trova un luogo favorevole alla costruzione del nido, ne sopraggiungono altre fino a formare vere e proprie colonie.
Verso
Una rubrica che grazie alle sue immagini e nozioni porterà i lettore alla scoperta della flora e della fauna del nostro territorio. Un viaggio che vi farà immergere nella natura della pianura, collina e montagna tra fiumi, sorgenti, piante, fiori ed animali che caratterizzano da secoli le nostre terre.
A cura di Claudio Bonifazio
“Intervista a Fabio Banchio: Uno speciale dedicato alla musica in quarantena, progetti, curiosità e molto altro sull’artista.”
Una speciale intervista del curatore della rubrica “Scrivere Canzoni” Beppe Varrone a Fabio Banchio, musicista, arrangiatore, autore di libri e Direttore della Filarmonica Candiolese “A. Vivaldi”. In questo contesto di emergenza sanitaria la sua musica non si è fermata, come la sua carriera e la sua professionalità elogiata in molti eventi di livello mondiale. Laureatosi in Storia della Musica Moderna e Contemporanea alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università di Torino, si è in seguito diplomato presso il Conservatorio “G. Verdi” di Torino in Pianoforte, Composizione e Strumentazione per Orchestra di Fiati. La sua tesi di laurea, dal titolo L’eredità pianistica di Niccolò Paganini, è entrata a far parte della prestigiosa Indiana University Libraries. Ha tenuto recital in Italia ed all’estero, in modo particolare Francia, Svezia ed Argentina, accompagnando artisti di fama internazionale tra cui Fabrizio Bosso, considerato da pubblico e critica uno dei più grandi trombettisti italiani al mondo, e Simona Rodano, già protagonista del tour mondiale del musical Pinocchio, oggi ambasciatrice della lingua e della cultura italiana a New York. È autore della raccolta pianistica Il bianco e il nero e del volume bilingue (oggi giunto alla seconda edizione) I Grandi Maestri Piemontesi della Fisarmonica, presentato nel 2013 a Palazzo Lascaris, sede del Consiglio Regionale del Piemonte. Nel gennaio del 2015, ha diretto in mondovisione dal Teatro Regio di Torino gli inni che hanno ufficialmente aperto i solenni festeggiamenti per il bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco. Nel maggio del 2019, in occasione del concerto inaugurale dell’Euroschool Festival, con il Coro Piccoli Cantori padre Médaille dell’Istituto Maria Immacolata di Pinerolo si è esibito in mondovisione presso la Basilica Superiore Papale di San Francesco in Assisi. È vice presidente e responsabile del Settore Arte e Cultura dell’Associazione Piemontesi nel Mondo. È docente dei corsi dell’Arte Performer Metodo P.A.S.S. riconosciuti dal Coni e dai conservatori italiani.
Come ti sei organizzato per affrontare questo periodo di chiusura forzata?
Avere a disposizione uno studio musicale digitale ed un’ampia biblioteca mi hanno certamente agevolato. Se a questo aggiungiamo che vivo in una casa di campagna dove è possibile fare musica a qualsiasi ora…, posso certamente ritenermi molto fortunato.
Come hai vissuto il tuo rapporto con la musica?
L’ho vissuto, ovviamente, in modo diverso dal passato ma, comunque, ottimistico. In un momento di tangibile, oggettiva, difficoltà, l’arte rappresenta un insostituibile ancora di salvezza. Come diceva Dostoevskij, “La bellezza salverà il mondo”.
Sei riuscito a seguire i tuoi allievi a distanza?
Per quanto non sia assolutamente paragonabile ad una lezione di tipo tradizionale, l’uso della tecnologia mi ha permesso di mantenere vivo il rapporto con gli allievi, fattore determinante soprattutto per i più piccoli che, oggi più che mai, avvertono la necessità di mantenere vive le relazioni. La cosa più spiacevole è stata quella di comunicare ai bambini del Coro Piccoli Cantori padre Médaille che non saremmo potuti andare a Verona per il nostro concerto di maggio.
C’è un progetto sul quale ti sei dedicato maggiormente?
Con il Maestro Vittorio Sebeglia, giovane e talentuoso violinista dell’Orchestra Accademia Teatro alla Scala, registrerò prossimamente (a porte chiuse…) un concerto che sarà trasmesso in rete. Ho avviato, inoltre, una proficua collaborazione con il Maestro Claudio Fenoglio – Maestro del Coro di Voci Bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino – finalizzata alla realizzazione di nuovi supporti didattici per i cori di voci bianche e gli allievi di canto.
I tuoi primi appuntamenti in vista di una riapertura?
Mi auguro che in autunno possano andare in produzione due spettacoli teatrali dedicati a Mia Martini e Lucio Battisti, quest ultimo insieme ai componenti del Progetto Battisti. Qualora Torino ospiti a settembre il Salone Internazionale del Libro, auspico di poter fare con il Maestro Luca Zanetti alcune presentazioni-concerto del mio libro dedicato ai grandi maestri piemontesi della fisarmonica. Spero, infine, nel mese di novembre, di tenere con la Filarmonica Candiolese A. Vivaldi il tradizionale concerto benefico a favore dell’IRCC di Candiolo.
L’episodio legato alla musica che ti è rimasto impresso durante la quarantena?
Ho particolarmente apprezzato, per lo spirito dell’iniziativa e la qualità dell’interpretazione, l’esecuzione che la violinista Lena Yokoyama ha dedicato al personale sanitario dell’Ospedale Maggiore di Cremona ed ai volontari di Samaritan’s Purse.
VIGONE: “Primo concorso letterario dedicato allo scrittore Alejandro Jodorowsky”
Il gruppo LIBeRI con il patrocinio della Città di Vigone lancia la prima edizione del concorso letterario nazionale “Premio Alejandro Jodorowsky”. L’iniziativa nata dalla volontà della scrittrice vigonese Cristina Viotto vuole omaggiare l’artista cileno.
Il concorso si divide in due grandi sezioni: la poesia e la narrativa breve. Due anche le fasce d’età: Junior (fino ai 16 anni) e Senior (dai 17 anni). Le opere dovranno essere inviate entro il 31 dicembre 2020 ed esaminate in seguito da una giuria di esperti. Premi per i primi sei classificati di ogni categoria oltre ad un premio speciale ad un unico partecipante destinato al lavoro che meglio si avvicinerà al modello di scrittura dell’autore al quale è dedicato il concorso: originalità, poliedricità e capacità di uscire dalle righe.
Per informazioni: [email protected].
Di seguito regolamento e scheda d’iscrizione:
TE LO DICO IN POESIA: “4 maggio 2020…Il risveglio”
Ore 7,30. Puntuale come un orologio scatta la mia FASE 2. Metto le scarpette, la giacchina sportiva e prendo tutti i documenti che mi consentono di muovermi, da oggi servono più che mai. Destinazione parco Colonnetti, al di là del ponte sul Sangone, ad un km da casa mia.
Sento una strana trepidazione, dopo una notte di sogni premonitori. Tra cui uno in particolare. Un cane cucciolo mi veniva incontro scodinzolando e abbaiando festoso chiamandomi a correre con lui. E’ un richiamo al risveglio della vita, e lo colgo appieno.
Mentre scendo tocco la mia mascherina come se fosse la mia seconda pelle e mi butto nel traffico che comincia ad essere di nuovo sostenuto. Ho paura di non farcela a tornare a piedi dopo due mesi di immobilità da poltrona e divano… prendo la macchina.
Il parco è lì, imponente. Le sue erbe incolte si muovono come onde del mare, accarezzate dal venticello e il mio respiro si apre, i polmoni si allargano.
Appena inforco la stradina una miriade di pensieri si intrecciano nella mia mente, gli occhi osservano in modo profondo ogni particolare. Quanto mi sei mancata natura viva. Continuo a camminare per il vialetto sotto il salice piangente e ad un tratto spunta un leprotto, poi un altro più in là e il cinguettare degli uccelli è più forte che mai. Mi fermo e con un po’ di timore penso a come non diventare l’elemento di disturbo. Gli animali e il bosco in questi mesi sono stati di nuovo soli, come non succedeva più da tempo, riprendendosi gli spazi e il silenzio.
Mi muovo piano e penso come l’uomo dovrebbe approfittare dell’occasione per reinserirsi delicatamente tra loro, senza spaventarli e senza irrompere nel parco come se fosse un diritto sacrosanto appartenergli. Bisogna guadagnarsela questa identità, sentendosi solo una piccola parte rispettosa di una comunità ben più ampia.
Riparto a camminare in punta di piedi e questo pensiero mi fa scaldare il cuore, sentendomi per un attimo come Biancaneve che cantava seduta nel prato attorniata da leprotti, cerbiatti e uccellini festosi tra le sue mani.
Scatto qualche foto agli alberi che dimostrano tutta la loro bellezza, anche se il sole oggi non c’è, e quando sento i passi dietro di me, mi sposto cercando di mantenere quella distanza sociale che mi permette di rivedere tutto questo e di portarmelo a casa, negli occhi, nelle membra e nella mente.
Finisco il mio giro e torno alla macchina, non trascurando alcuni momenti di allungamento per le gambe e le braccia che rivedo finalmente rosse, ossigenate dalla circolazione che riprende i suoi spazi, proprio come la natura intorno.
Rientro a casa, i miei cani mi accolgono festosi e felice sorseggio il mio caffè.
Oggi 7,30 puntuale come un orologio, è scattata prudente la mia FASE 2. Che profuma, come non mai, di libertà.
COMING SOON: “Intervista a Fabio Banchio, la sua musica in quarantena, progetti, curiosità e molto altro.”
Il Chisolino Online è fiero di annunciare con piacere un’intervista di prossima uscita insieme a Fabio Banchio, musicista, arrangiatore, autore di libri e Direttore della Filarmonica Candiolese “A. Vivaldi”.
In questo contesto di emergenza sanitaria la sua musica non si è fermata, come la sua carriera e la sua professionalità elogiata in molti eventi di livello mondiale.
I suoi studi, la docenza, ricordi e progetti per un futuro ricco di musica saranno solo alcuni degli aspetti toccati dall’intervista condotta da Beppe Varrone nella sua rubrica “Scrivere canzoni”.
Continuate a seguirci.
TE LO DICO IN POESIA: “La libertà della partigiana – Carla Capponi “
La libertà è un soffio di vento eterno
Invade il corpo con tenace entusiasmo
Lo fa muovere e correre costantemente
Alla ricerca sfrenata della dimensione umana
La libertà spezza le catene del pensiero irrigidito
È un esercito nascosto tra i rovi
Pronto ad uscire con le braccia alzate verso il cielo
A cantar vittoria per la ritirata degli aggressori
La libertà è l’unione di donne e uomini
Astuzia e sguardo attento li guida
Verso spazi sconfinati che riescono a controllare
Con la sola eco di un sibilo animale
La libertà è montagna e mare
È poter guardare i propri figli
Col sorriso gentile di una certezza
Del donare ad essi i loro confini
La libertà è un soffio di vento eterno
Che sfiora i capelli morbidi tagliati
Delle donne soldato armate di fiori di campo
Che han piantato nelle verdi valli
Sotterrando i proiettili per sempre
Tiziana Calamera 21 Febbraio 2019
Dedicata a Carla Capponi e tutte le donne partigiane per il loro impegno e coraggio offerto per molti anni di Resistenza.
C’è un linguaggio con cui spiegare gli eventi e il mondo che ci circonda in modo empatico e riflessivo: la poesia, che interpreta in profondità il nostro legame interiore con esso e muove le corde emotive alla ricerca di intuizioni concrete che ci fanno evolvere. Sarà un viaggio alla scoperta del proprio essere, che vi invito a fare con me.
A cura di Tiziana Calamera
Poetessa
PINEROLESE WILD: “Storia e leggende tra le borgate pragelatesi”
Il Comune di Pragelato, uno dei più estesi della Val Chisone in quanto a superficie, è composto di ben 20 villaggi o borgate. Di esso faceva parte anche, fino al 1934, cioè fino alla costituzione del comune di Sestrieres, nel quale venne inclusa, l’omonima borgata.
Molti di questi villaggi, un tempo popolosi e pieni di vita, sono ormai vuoti e abbandonati.
Alcuni di essi sono ridotti ad alpe per la monticazione del bestiame (Troncea, Seite, Laval, Jousseaud, Foussimagne, Rif), altri (Allevé, Grand Puy, Villardamond, Chezal) si animano solo nella bella stagione quando vi tornano alcune famiglie indigene per attendere ai lavori dei campi o per accudire gli alveari, oppure per ospitare famiglie emigrate nella vicina Francia o in Italia che vi fanno ritorno per ritemprare il fisico e lo spirito, o, ancora, nuclei di forestieri che hanno acquistato i vecchi casolari e li hanno ristrutturati, non sempre però mantenendovi le caratteristiche architettoniche.
Si sa però per certo che altri villaggi vi esistevano, oltre a quelli attuali. Sono i villaggi di Jabets (lou Dzabée), nei pressi di Seite in val Troncea, Nai, nelle vicinanze di Jousseaud, Granges Chalmette (lou Drôn dâ Cazèi), nell’omonima regione, Mureaux (lou Murau), a ridosso del Chisone tra Soucheres Basses e Fraisse, Rif superiore (lë Riou d’amount), a nord dell’omonimo villaggio.
Questi villaggi sono stati distrutti durante le frequenti vicende belliche che nei secoli scorsi hanno travagliato l’alta Val Chisone, spazzati via dalla furia degli eserciti in contesa. Di taluni di essi sono rimasti dei ruderi, tuttora ben visibili.
La tradizione popolare vuole però che altri villaggi esistessero nel territorio pragelatese ma di essi ben poco si sa, avvolti come sono da un alone di leggenda che non offre possibilità alcuna di documentare in concreto la loro esistenza.
Una zona che si vuole fosse sede di insediamenti umani è quella che da Villardamond si estende verso il colle Basset. In questo ampio vallone pare esistessero due villaggi, denominati Counh (a forma di cuneo) e Cabot (baita).
Il primo sarebbe stato situato a ovest di Villardamond, oltrepassato il rio denominato Coumbalét, lungo il sentiero che porta all’alpe Routsô la grôndze e all’alpe Brûn.
Quivi, in località Enversi d’amount (Inversi superiori), il piccolo villaggio sarebbe sorto, fondato forse da esuli valdesi cacciati, durante le persecuzioni ordinate dall’Inquisizione, dalla Val Troncea.
Pare che uno dei primi abitanti di Counh fosse un tale Jayme, fuggito da Laval, i cui discendenti, convertiti al cattolicesimo, si trasferirono poi a Villardamound.
Narrasi che durante una visita di Luigi XIV in Val Chisone gli abitanti del villaggio gli si presentassero davanti per rappresentargli il loro disagio nel doversi recare a La Ruà per le funzioni religiose, supplicandolo di far erigere una chiesa in località più prossima al loro villaggio.
Il re di Francia, sensibile ai bisogni spirituali dei suoi sudditi, avrebbe promesso ai postulanti che una nuova chiesa sarebbe stata eretta a Traverses.
In quell’incontro con Luigi XIV, gli abitanti del Counh avrebbero anche implorato aiuto per alleviare le loro misere condizioni economiche provocate da un’invasione di cavallette che avevano devastato i loro magri raccolti. (Tutto ciò è però frutto della fantasia popolare non essendo comprovato da nessun documento storico. Forse non si trattava del re di Francia ma di qualche suo emissario).
L’esistenza del villaggio del Counh sarebbe comprovata da due fatti, uno avvolto dalla leggenda e l’altro assai più concreto perché verificatosi da poco tempo.
Vuole, infatti, la leggenda che un viandante, proveniente dal colle Basset, incontrasse, una domenica mattina, accanto alla fontana del Villaggio, dove si era fermato per dissetarsi, sette fanciulle intente a lucidare le zangole e i paioli di rame (“Sette mariouira en tren a furbî soû buria e soû sedzelîn” dice l’antica leggenda).
Alcuni anni fa, una donna di Chezal, che si recava in visita ai propri parenti ad Allevé, attraversando la zona, avrebbe notato, là dove sorgeva il villaggio, i resti della conduttura in legno che portava l’acqua alla fontana. Ciò confermerebbe, senza ombra di dubbio, che il villaggio del Counh è realmente esistito.
Il villaggio denominato Cabot sarebbe stato situato molto oltre quello del Counh, in località lâ Platta (i pianori) sulla mulattiera che conduce al colle Basset. Di esso nulla si sa di preciso. Forse non si trattava di un villaggio vero e proprio ma di un piccolo agglomerato nel quale si erano insediate alcune famiglie di sbandati a causa delle persecuzioni religiose.
Vuole la leggenda che, a poco a poco, a causa della lunghezza e della rigidità dell’inverno e della presenza di famelici lupi che infestavano la zona, gli abitanti abbandonassero il minuscolo villaggio.
Solo due sorelle nubili si sarebbero rifiutate di andarsene. Fu durante un interminabile inverno che una delle due morì.
Essendo impossibile trasportarla a valle a causa dell’enorme quantità di neve che letteralmente tutto sommergeva sotto un’imponente massa gelata, la superstite avrebbe portato la defunta sua sorella nella parte superiore della sua dimora, quella dove si conserva la paglia e si ripone la legna, conosciuta in patouà col nome di pantèria.
Quivi, avvolta in un fascio di paglia, la poveretta sarebbe rimasta per la restante parte dell’inverno: a primavera, le sue misere spoglie avrebbero poi trovato sepoltura nel piccolo cimitero del Counh.
Altro insediamento abitativo avrebbe avuto luogo in località Croo (conche), una zona tra Allevé e Rif, a nord della borgata Granges, ai piedi di una grossa ripa denominata Bruô dë Piere Couquin (ripa di Pietro il malvagio).
In detta località, un tempo coltivata a prato e campo ed ora ridotta, al pari di tante altre, a gerbido, si possono notare dei ruderi la cui forma e disposizione possono facilmente dare l’impressione che ivi siano veramente esistite delle abitazioni.
Un ultimo villaggio si sarebbe infine trovato nei pressi della borgata Rif.
Questa sarebbe quindi stata composta di tre nuclei, e precisamente: il Rif superiore (Riou d’amount), il Rif di mezzo (Riou dâ mei) e il Rif inferiore (Riou d’avôl).
Ad avvalorare l’ipotesi dell’esistenza di quest’ultimo c’è il toponimo con cui è nota la località in cui esso sarebbe sorto e precisamente Grangiot, ossia Grôndze dë Giot (baita di Guiot, cognome, questo molto comune in Pragelato).
Nulla di più probabile, quindi, che accanto alla baita suddetta ne esistessero anche altre sì da formare un vero e proprio villaggio, abbandonato e poi distrutto nell’arco dei secoli.
http://www.chambradoc.it/lavaladdo-testiinitaliano/antichiVillaggiPragelatesi.page
“Le tre di notte, il rito della vestizione. Infermiere in corsia”
La collega oltrepassa la striscia di nylon, pochi passi e scompare dietro una deviazione del corridoio che porta nel cuore del reparto. Rimango oltre la striscia, nella zona “pulita” sento i suoi passi percorrere avanti ed indietro il corridoio nascosto, poche pause, poi altri passi. Vorrei essere invisibile e protetto e vedere cosa c’è oltre. Ma è solo questione di ore. Torno in medicheria, la giovane collega su mia precisa richiesta, mi spiega cosa sono le sigle sulla consegna e come si montano le maschere Venturi e altro ancora. Da insegnante universitario e tutor di poche ore fa, mi trovo ora nelle vesti di studente e… tirocinante. Quanti particolari da imparare nel giro di poche ore. Prendo appunti, ma inutile farlo, tanto non avrò il tempo per rileggerli. Sono già le due… stranamente né io né la collega parliamo della nostra vita privata, sembra che vogliamo tenere fuori la nostra esistenza da questa situazione caduta improvvisamente sopra di noi, e sembra sull’intero mondo. Sono le due e trenta. “Dobbiamo cominciare a vestirci, ci vuole tempo…” dice Francesca, “Sì giusto, iniziamo,” rispondo con voce sicura ed anima tremante. Con celerità iniziamo a prendere i vari presidi dagli armadi e dalle scatole. È la prima volta che mi vesto così. Apro la confezione del camice chirurgico, un camice di un colore blu acceso, al suo interno vi è un grosso fazzoletto bianco, lo afferro per gettarlo ma la Francesca mi ferma dicendo, “No, fermo, quello lo mettiamo al collo, è utile.” i presidi sono tutti diversi, la collega prima aveva usato un altro indumento ancora. Guardo la collega, la osservo e la imito, lei ha… un giorno di esperienza in più di vestizione, esperienza preziosa. A turno ci leghiamo, il camice da dietro, con lacci che penzolano dai lati. Le mie spalle larghe, premono contro il camice, Francesca è costretta a fermare i lembi con abbondante cerotto di seta, e io devo fare altrettanto con lei per il motivo opposto. Lei scompare all’interno dell’indumento. Il fazzoletto bianco è arrotolato intorno al collo, anch’esso incerottato abbondantemente. Poi indosso una cuffietta leggera, traforata e trasparente, una cuffietta da sala, seguo il consiglio di Francesca e la posiziono fino alla fronte. Essendo piccola, lascia scoperta la nuca, ma fortunatamente abbiamo un altro copricapo, che, avendo forma diversa, lascia scoperta la fronte, ma copre la nuca. Si lega sul davanti. Sento già il sudore scivolare lungo la schiena e non sono nemmeno a metà della vestizione. I camici, di taglia unica, coprono al massimo fino al ginocchio, almeno per le persone alte come me, quindi bisogna trovare delle soluzioni. I copri scarpe hanno uno splendido colore, ma il colore non spaventa il virus, coprono solo gli zoccoli. Li indossiamo comunque, ma poi prendiamo due sacchi neri della spazzatura, quelli dove si gettano i rifiuti di ogni tipo, e dopo aver messo le gambe dentro, li sagomiamo sempre con il cerotto di seta, cerchiamo di dare una forma ergonomica, meglio non inciampare all’interno del reparto. Non riesco a definire la sensazione che provo. Indossare dei sacchi della spazzatura. Mi proteggo o proteggo io qualcuno? E mi proteggo o proteggo qualcuno con dei sacchi della spazzatura? Non è l’estetica che mi disturba. I pazienti riconosceranno me e la mia collega come professionisti o come cosa? E come si percepiranno loro? Tolgo questo pensiero dalla mente, lo rinchiudo dentro al sacco, non voglio che esca, forse adesso la paura è più forte e ogni pensiero è invadente. Io e Francesca non riusciamo nemmeno a guardarci negli occhi, forse anche lei ha pensato la stessa cosa, ma preferisco non chiedere. Prendo un paio di guanti, color bianco latte, con le maniche più lunghe, taglia XL, l’unica confezione presente. Francesca prende le forbici e fa un piccolo foro vicino all’elastico delle maniche, “Infila il pollice, cosi il camice non scappa e il polso rimane coperto,” seguo senza fiatare le sue istruzioni. Aiuto anche lei nella stessa operazione. Poi indossiamo un altro paio di guanti sopra, i miei entrano a stento. Cerco di non lacerarli. Non vi sono guanti di una misura più grande. Adesso prendiamo un altro camice, spesso, pesante. Il suo verde acceso, è quasi bello. Non ha tasche, solo lacci che si annodano da dietro. Impossibile fare da soli questa operazione. Infilo le braccia, Francesca da dietro tira il camice e poi lo lega. Io aiuto lei, stringo il più possibile i lacci, ma il suo esile corpo non riempie nemmeno il doppio camice, sono costretto ad usare nuovamente il cerotto di seta, “Sarà un bel problema toglierlo dopo,” dice Francesca quasi ansimando. Io cerco di azzerare le emozioni, penso solo al qui e ora, il domani è un’ipotesi, forse perché è troppo lontano. Ma le emozioni non si possono azzerare, non ci si abitua alla sofferenza, non ci si abitua al dolore, non ci si abitua alla morte. Nessun camice, nessun guanto, nessun copri collo attaccato con il cerotto ci difende da questo. Nemmeno i sacchi della spazzatura che indossiamo… vestiamo la corazza del coraggio, piena di crepe, piena di fori, ma incredibilmente solida ora. Il tempo è passato inesorabilmente e noi siamo ancora sprovvisti della barriera più preziosa. La mascherina e gli occhiali protettivi. Francesca mi porge la mascherina FFP3, ha un colore bianco pallido, ai due lati ha dei filtri che sporgono. Indossarla non è semplice, soprattutto perché dopo si deve togliere senza toccare l’interno. Grosso problema per me che ho gli occhiali. Guardo la collega, afferra con una mano la mascherina e con l’altra il doppio elastico. Posiziona la mascherina sul muso e un elastico alla base della nuca e l’altro in altro. Poi sopra rimette la chirurgica. Io devo togliere gli occhiali, cerco di fare la stessa cosa. Riesco al secondo tentativo. Non avendo capelli, la cuffia fa effetto velcro e l’elastico non scivola, ma stringe come un pensiero di morte. Ferma quasi la circolazione, ma per far aderire la mascherina cosi deve essere. Rimetto gli occhiali, e la chirurgica. Non parlo, sento le orecchie tirare verso il viso. Un dolore insidioso. I miei occhi si girano verso l’orologio. Le tre meno dieci. Troppo tardi o troppo presto? Esce il mio fiato dall’alto della mascherina, o forse esce dai filtri, non lo so. Adesso devo indossare gli occhiali copri occhiali. Sembrano una maschera da sub, ma qui non devo immergermi nel blu infinito per vedere i coralli o ricci, qui mi devo immergere nell’ignoto, nella malattia, nella morte forse. Li indosso con fatica. Mi stringono sul naso, dietro le orecchie, sulla fronte e l’elastico dietro comprime anche il cervello. Ma la sensazione di compressione mi fa sentire più protetto, ma protetto da cosa? Dal fiato dei pazienti, da me stesso, dalle mie paure, dal virus? Non c’è più tempo per pensare, non c’è più tempo nemmeno per guardare l’orologio. Ci controlliamo a vicenda io e Francesca. Vedo appannato. Il fiato arriva anche dentro i copri occhiali. Camminiamo verso la striscia di nylon. Il rumore dei sacchi che toccano il pavimento dà la sensazione di muoversi strisciando. Il nastro di nylon è ormai a pochi centimetri da me. Adesso sento il cuore battere dentro i due camici. Il mio fiato comprimere le mascherine e premere con forza per uscire. Non voglio far entrare l’aria, ma devo pur respirare… anche se forse non vorrei. Oltrepasso la striscia, il buio è profondo… ormai sono dentro.
Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.
A cura di Graziano Di Benedetto
Scrittore – Attore
TE LO DICO IN POESIA: “Versi e parole dedicati ad una Pasquetta diversa dalle altre”
Per questa Pasquetta un po in sordina, una piccola immagine di un tempo che può essere diverso, una finestra sul cortile dei pensieri che vanno oltre i ricordi con l’immaginazione.
Pasquetta
Pasquetta, Pasquetta
sei la prediletta
delle gite di primavera
di festa riempi l’atmosfera
E son griglie e fuochi prelibati
su quei prati dall’odore incantati
grida di gioia si elevano al cielo
in un angolo di vita sotto l’albero di melo
Ma quest’anno la gita al mare non si può fare
l’azzurro intenso dal balcone si può sognare
creando confini di pensiero
di quel mondo marino che diventa vero
E’ dalla finestra eletta
che si vive la Pasquetta
rimirando i fiori e frutti
che sui terrazzi onorano i lutti
E ripenso a quelle bambinette
che correvano per le strade in biciclette
per quel senso di vivace libertà
che si prova solo a quell’ età
Ora è un’altra Pasquetta
che non va più di fretta
dove il silenzio scorre lento
e gioca a nascodino con il vento
Tiziana Calamera 13 Aprile 2020
C’è un linguaggio con cui spiegare gli eventi e il mondo che ci circonda in modo empatico e riflessivo: la poesia, che interpreta in profondità il nostro legame interiore con esso e muove le corde emotive alla ricerca di intuizioni concrete che ci fanno evolvere. Sarà un viaggio alla scoperta del proprio essere, che vi invito a fare con me.
A cura di Tiziana Calamera
Poetessa
PINEROLESE WILD: “Pequerel, la giornata delle due stagioni”
Marzo è pazzerello… al mattino qualche centimetro di neve a Fenestrelle, al pomeriggio tutto asciutto sul versante a sud…. mi sa che Greta un po di ragione c’è l’ha!
Passeggiata da Fenestrelle a Pequerel, tra antichi sentieri dove un tempo tutto era coltivato ed i muretti lungo il percorso sono li a ricordarlo, in un ambiente tutto esposto al sole, dove Pequerel è circondata dal Pelvo, dall’Orsiera, da Pra Catinat, mentre dall’altro versante l’Albergian e il suo vallone fanno l’occhiolino in un ambiente maestoso.
Come sempre un posto incantevole…..
La storia di Pequerel ha molte leggende e sembra che la sua creazione sia dovuta a due fratelli…..
Una storia locale racconta che Pequerel fu fondata nel medioevo da un tale Pin Cairel, fratello meno celebre del trovatore Elias Cairel.
I due fratelli, provenienti da Sarlat, in Aquitania, erano di famiglia ricca, avendo ereditato la professione di orefici e disegnatori di blasoni del padre.
Poi, stufi di quella vita borghese, si misero entrambi a comporre canzoni, diventando giullari.
Elias, che aveva la fama di essere un pessimo cantante, ma uno dei migliori compositori di testi e melodie della sua epoca, viaggiò di qua e di là per l’Europa, partecipando alla quarta crociata e si dice combattendo pure nella battaglia di Las Navas de Tolosa contro i Mori di Spagna.
Il nostro Elias soggiornò per qualche tempo anche in Italia, in Veneto senz’altro.
Ed in uno dei suoi viaggi la leggenda racconta che egli si portò appresso il fratello minore, Pin, pure lui giullare, con una voce ancora peggiore della sua e senza neppure il dono di essere un ottimo paroliere.
I due fratelli attraversarono il Monginevro, dove passava il percorso principale della Via Francigena.
Giunti all’altezza del villaggio di Fenestrelle, si fermarono in una locanda a rifocillarsi: la figlia dell’oste, la fanciulla più bella della valle, portò due bei boccali di birra ai viandanti e tanto bastò a Pin per innamorarsi perdutamente di lei.
Il giovane convinse il fratello maggiore a fermarsi per la notte nella locanda, sperando di poter parlare con l’amata e rivelarle la propria improvvisa passione.
Ed Elias accettò.
E così per le due o tre notti seguenti, fino a che il maggiore non si stufò di aspettare che il timido Pin si dichiarasse.
Così andò lui a riferire alla giovane l’amore del fratello e scoprì che pure lei lo amava. “Valli a capire – pensò Elias tra sé – due giorni che parlottano e già si vogliono sposare, io ho viaggiato mezza Europa e Palestina ed ancora non ho trovato una dama da amare…”
Fatto sta che Elias abbracciò il fratello augurandogli ogni bene e ripartì, in direzione di Treviso, dove sperava di trovare accoglienza presso il signore Azzo d’Este. Avvenne però che l’oste non volesse dare la figlia in sposa ad un giullare, benché costui giurasse di essere un artigiano di grandi doti, sia nel lavorare i metalli preziosi, sia il legno. “Dimostramelo – disse l’arcigno valligiano – e avrai in moglie la mia figliola”.
Così Pin si inerpicò sulle montagne sopra Fenestrelle, dove all’epoca non c’erano né forti né alberghi inquietanti, e, aiutato solo dalla propria amata, in pochi mesi edificò la propria casa, con tanto di fregi d’oro e di legni finemente intagliati.
La casa di Pin Cairel divenne così celebre e pregiata che ben presto altri giunsero a vivere nella sua valletta e la borgata che ne uscì prese il nome dal suo fondatore: Pincairel, oggi Pequerel.
La biografia medievale di Elias Cairel racconta che egli, stanco del troppo peregrinare, tornò ormai anziano a morire a Sarlat, da cui era partito tanti anni prima. Ma é bello pensare che si sia fermato a Pequerel, dal fratello Pin.
TE LO DICO IN POESIA: “I tempi del Coronavirus”
Sono affetto da Coronavirus. Già… è capitato. Proprio a me. E’ stata colpa di quel cinese senza difese, venuto dal suo paese.
Ora son qui isolato, tra il mio letto e la poltrona leggo una storia buona.
Passare il tempo è difficile, penso al lavoro che mi dà decoro. Non ci posso andare, chiuso in casa mi tocca stare.
Chissà se passerà e quando passerà, potrò uscire di nuovo con la stessa dignità? Sono portatore di problemi, ho scritto una storia dove l’economia è stata spazzata via da un piccolo animaletto che si infila dentro il petto.
Eppure è invisibile, ma fa paura, è temibile perché si diffonde in modo formidabile.
Mette alla prova la scienza e la medicina che è confusa più di prima. E’ solo un’influenza che si espande con arroganza. Ma noi la vinceremo se tutti uniti rimarremo.
Al teatro non si va più, si sta distanti almeno un metro per non rischiare con la saliva di finire in terapia intensiva.
Penso al mio viaggio in treno verso la bella Sicilia, dovevo partire in primavera per un’esperienza vera. Ma il treno non parte più. Solo fra i suoi binari senza gli “infestanti” passeggeri.
E’ un pellegrinaggio verso mondi inesplorati, fatti di gel e supermercati svuotati, dove l’unico pensiero e quel sogno così vero di pace e di speranza verso l’essenziale tolleranza.
Eppure è già successo nel medioevo che la peste falciò le folle e tutti la presero con le molle. Gli appestati furono abbandonati e i moribondi calpestati.
Ora è diverso. Stiamo chiusi in modo regale con pasti caldi e il telegiornale che ci informa ogni minuto se più di uno è sopravvissuto.
Alle fine della storia cosa ci mancherà? Quell’abbraccio e quella stretta di mano che sono dell’umanità l’essenza dell’uomo. E mai più tornerà quel momento tanto atteso, del bacio sulle labbra verso la mia lei proteso, guardandola negli occhi aspettando che mi tocchi.
Siamo al tempo del Coronavirus, si è trasformato anche il visus perché non abbiamo più occhi per vedere i colori delle primavere, offuscati da chi ha perso il coraggio di continuare il proprio viaggio.
Oh Dio pensaci tu a sistemare la questione, con la tua santa protezione. Di invisibili te ne intendi nella vita dei tuoi mondi. E chissà che non sia la volta buona per ricordare la tua storia e rinfrescare la memoria. Dopo il trapasso non c’è il collasso, ma l’inizio di una nuova vita, di tutto l’amore possibile colorita.
Tiziana Calamera 9 marzo 2020
C’è un linguaggio con cui spiegare gli eventi e il mondo che ci circonda in modo empatico e riflessivo: la poesia, che interpreta in profondità il nostro legame interiore con esso e muove le corde emotive alla ricerca di intuizioni concrete che ci fanno evolvere. Sarà un viaggio alla scoperta del proprio essere, che vi invito a fare con me.
A cura di Tiziana Calamera
Poetessa
Ma io chi? Sono io, io che sto leggendo. Sono corpo e mente, sono il mio migliore amico, sono il mio passato, il mio presente e il mio futuro e sono quella persona con cui passerò il resto della vita. E che cosa faccio per salvaguardare al meglio questa relazione con IO?
Qui viene il bello: la maggior parte di noi da IO per scontato, tanto c’è sempre. Invece, come per le migliori relazioni, va salvaguardato con cura. E prenderci cura del nostro aspetto interiore (quello che non vediamo) è il miglior modo per garantire un buono stato di salute e di benessere interiore ed esteriore.
Qualche esempio pratico: attività fisica regolare, alimentazione corretta e intestino sano inducono il nostro organismo a mantenere il peso forma, il giusto tono muscolare e a garantire la corretta eliminazione delle tossine prodotte.
Quanti di noi si identificano in questo profilo?
Scegliereste mai delle scarpe con cui non riuscite per nulla a camminare, fatte di un materiale di scarto, non della vostra misura e pure sporche?Credo di no.
Anche il nostro IO è responsabilità delle nostre scelte. Non abbiamo bisogno di tante cose per star bene, spesso è sufficiente mettere in pratica le SANE BUONE ABITUDINI, una alla volta. Il nostro IO ci saluterà ogni mattina con un sorriso ed un ringraziamento in più per la bella relazione che non solo non è più scontata, ma è diventata una relazione importante.
La sfida col proprio IO è lanciata, a ciascuno di noi la scelta di come condurla.
Una rubrica che nasce dal desiderio di far conoscere il farmacista come consulente della salute a 360 gradi e non solo come preparatore e dispensatore di medicine e scatolette.
A cura della Dott.ssa Silvia Boggiato
Farmacista
“Una vita sociale sana si trova soltanto,
quando nello specchio di ogni anima la comunità intera trova il suo riflesso,
e quando nella comunità intera le virtù di ognuno vivono.”
“Ciò che non giova all’alveare, non giova neppure all’ape.”
“L’uomo è per natura un animale destinato a vivere in comunità.”
Rudolf Steiner
Scrivere un articolo ai tempi del Covid-19 non è facile. Avrete letto molte informazioni, a volte chiare, a volte contraddittorie: dati, numeri, statistiche, dietro i quali vi sono però vite, storie, famiglie. Vi è inoltre una difficoltà che riguarda anche un altro aspetto, mai come in questo momento ciò che sta accadendo riguarda tutti noi, nessuno escluso.
E allora parto da qui: Come state? Come stiamo? Riuscite a vedere il bicchiere mezzo pieno o lo vedete mezzo vuoto? Disastro o opportunità? Abbattimento o speranza?
Parto da una riflessione personale: tempo fa condivisi un post su un social in cui c’era la famosa frase “andrà tutto bene” il quel periodo pensai fosse l’iniziativa di una mamma che voleva trasmettere un messaggio positivo e al contempo occupare il tempo dei figli. Allora mi sembrò una bella idea, oggi troviamo questa frase scritta, con un bel arcobaleno, in teli bianchi appesi a tanti balconi. Ma più osservo questa scritta, più passa il tempo e meno mi piace. E non perché non sia una bella frase, ma perché in quel “andrà tutto bene” c’è una speranza che molte persone non possono più condividere; quelle parole non gli appartengono più. E alle persone, alle famiglie, che non è andata bene, vorrei potessero sentirci vicini, compresi. Certo si dirà, la speranza è importante, e questo è profondamente vero, ma è altrettanto importante avere la consapevolezza che stare dentro e accanto al dolore e attraversarlo è una condizione umana che non possiamo pensare accada solo agli altri, e questo sembra essere il messaggio più duro che questo virus ci sta dando.
La paura, l’ansia e il panico, accompagnano il trascorre delle giornate. Alcuni hanno fatto scelte difficili, dolorose, chi tempo fa e chi oggi, distanziando i propri cari più a rischio di salute, quelli lontani, quelli nelle case di riposo, nei reparti ospedalieri, ecc… e non li hanno più visti. Non sono più riusciti a dare loro un abbraccio, un saluto. Un dolore che durerà per sempre. Un dolore nel dolore. Le normative chieste ci hanno imposto di modificare le nostre abitudini basilari, strette di mano, abbracci, frequentazioni, vita sociale, distanziandoci e guardandoci con sospetto, come solo il clima di terrore e panico sa invocare. La preoccupazione per il domani, per il lavoro, per una crisi economica generale, inizia a prendere lo spazio nella mente delle persone che trascorrono insonni molte notti.
Chi ha potuto, ha lavorato da casa, i bambini e ragazzi all’inizio felici di questa inattesa vacanza , hanno iniziato, ad avvertire la noia, la difficoltà a gestire e riempire il tempo, apprezzando e rivalutando quei momenti di socialità e impegni scanditi da una quotidianità che quando la vivi, ti sembra insopportabile, ma quando ti manca ne invochi il ritorno. E poi con il trascorrere delle settimane, gli studenti hanno ripreso un po’ di pseudo normalità con il ripristino di una scuola online, che colta impreparata da questa situazione sta provando, pur con mille difficoltà, ad aiutare a distanza i propri alunni. Genitori stanchi, soli, senza il sostegno dei nonni tenuti a distanza per proteggerli, con la fatica di gestire l’argento vivo insito nella gioventù, che non vuole farsi “chiudere” anche se per il loro bene, diventa una guerra costante; così come al contrario temere le ripercussioni di un isolamento sociale che per molti ragazzi sta diventando normale, persi nella loro bolla virtuale, rinunciano anche solo a prendere una boccata d’aria per accompagnare il cane.
Prendo a prestito la parola di una mia paziente (che ringrazio per avermi autorizzato) che mi disse di sentirsi “alienata” in questa situazione, e se ne ricerco l’etimologia la trovo una definizione puntuale:
Cit: “Nel linguaggio filosofico si intende reso estraneo, ridotto a cosa o natura, senza libertà.
Montesquieu diceva che: “La libertà è quel bene che ti fa godere di ogni altro bene.”
E questo è e il bicchiere mezzo vuoto.
E a tutti noi, la mancanza di libertà ci sta costando? Quanto? Come stiamo reagendo?
Molti avranno reagito cercando di trovare “degli aspetti positivi” anche nella situazione estrema: passare più tempo in famiglia, rallentare i ritmi ecc. Passare accanto ai cortili condominiali che ormai non hanno più la loro funzione socializzante e vedere papà che giocano a pallone con i loro figli è un’immagine così forte e suggestiva da farmi commuovere. Il profumo del pane, delle torte ,delle pizze che inondano le nostre case, fa sussultare il cuore, ci fa tornare indietro nel tempo. Nonni o genitori che imparano a fare le videochiamate ci aiuta, almeno un po’, a sopportare la loro mancanza. Generazioni nuove e vecchie accomunate dalla tecnologia; si è distanti ma ci sentiamo anche vicini.
E questo è il bicchiere mezzo pieno.
E poi c’è un bicchiere speciale che definirei colmo: di bontà, di gratitudine, di senso del dovere, di passione, di sacrificio, di altruismo, ed è colmo delle tante persone che hanno dovuto garantire i servizi, esponendosi in prima persona ed esponendo i loro familiari al contagio. A voi/noi tutta la solidarietà e il nostro grazie. Grazie anche a coloro che se pur con la difficoltà delle restrizioni, hanno facilitato e reso possibile il compito di aiutarvi e sostenervi. Alle professioni sanitarie in primis, ma anche a tutti quelli che hanno continuato a lavorare per andare avanti: negozianti, tecnici, operai, addetti alle pulizie, trasportatori, autisti impiegati, magazzinieri, forze dell’ordine, tantissimi volontari, ecc… tanti, tanti davvero. Un grazie di cuore, perché ci avete fatto sentire parte di un tutto, di una comunità, di un paese, di una nazione, di una umanità.
Affido il mio abbraccio scritto, a tutti voi e ai vostri cari, alle bellissime e profonde parole di Mahatma Gandhi:
“La conclusione logica del sacrificio di sé è che l’individuo si sacrifica per la comunità, la comunità si sacrifica per il distretto, il distretto per la provincia, la provincia per la nazione e la nazione per il mondo. Una goccia strappata dall’oceano perisce inutilmente. Se rimane parte dell’oceano, ne condivide la gloria di sorreggere una flotta di poderose navi.”
PsiCHIcoline è una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta