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Scrivere perchè

“Reparto Covid-19, il nuovo libro di Graziano Di Benedetto”

Lo scrittore Graziano Di Benedetto presenta il suo ultimo lavoro scritto, “Reparto Covid-19”. Un infermiere riceve la comunicazione che di lì a poco modificherà la sua vita famigliare e il suo lavoro. Chiamato d’urgenza al reparto Covid di un ospedale piemontese, si trova di fronte a una realtà nuova, carica di incognite e di paure che superano i muri delle stanze dove per tanti si consuma la tragedia della morte. Graziano Di Benedetto racconta, o meglio, documenta questa storia dall’interno, attraverso i corridoi e nei locali silenziosi dove le persone attendono di morire o di salvarsi. Non c’è tempo per soffrire, solo per assistere fino alle ultime fasi, molte volte donne e uomini spaventati. Il sibilo dei respiratori fa da colonna sonora a immagini da incubo, qualche volta da sogno, in un mondo che per tanti è inimmaginabile. Nella paura e nel sacrificio c’è spazio per l’amore, la compassione e le passioni che rendono la vita e anche la morte meno intollerabili.
L’autore nei suoi lavori mescola finzione e realtà. Sono opere di finzione anche se alcune caratteristiche dei protagonisti le ricalca su intere parti di vita vissuta. Reparto C-19 è stato scritto nel corso dell’emergenza sanitari della primavera 2020. Le storie che contiene sono reali, quindi, nel senso che sono state viste e vissute personalmente da chi le racconta. Ibridazione tra ciò che è esperienza diretta delle cose e finzione è una cifra di Graziano Di Benedetto.

Ma perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? “Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere” le parole dello scrittore.

“La cattiveria. Infermiere in corsia”

Lo smonto notte, unico “riposo,” non era sicuramente bastato a placare la stanchezza, ma l’emergenza prevedeva l’ottimizzazione di ogni risorsa umana, quindi oggi, nuovamente al lavoro. Turno del mattino. Indosso nuovamente la tuta, più pratica rispetto ai jeans, alla camicia e al maglioncino. Ovviamente era già stata lavata in lavatrice. Il turno mattiniero mi spaventava un po’, è il turno dove vi è la maggior parte degli esami. Vi è la visita medica, l’aggiornamento delle cartelle e gran parte dell’assistenza di base. Uscire così presto al mattino, verso le sei, è bello. Soprattutto quando vi è questo rumoroso silenzio, che riempie quasi ogni pensiero, quasi. L’itinerario è percorso a memoria. L’alba è uno spettacolo della natura. Tutte le sfumature del giallo e dell’arancione invadono piacevolmente il mio orizzonte. Eccomi poco dopo sotto il nosocomio. Nonostante l’emergenza il parcheggio è come sempre un miraggio. Incrocio alcuni colleghi, tutti come me indossano la mascherina, stiamo a distanza anche per strada, giusto che sia così. Le regole sembrano normale abitudine per noi. Soldatini operosi. Distanti anche per timbrare il cartellino. Nessuna parola fra di noi. Lo spogliatoio maschile è silenziosissimo. Il cigolio inquietante di qualche armadietto che si chiude o si apre fa capire la presenza di qualche altro collega. Entriamo quasi ad occhi bassi, ci proteggiamo l’uno dall’altro. Vi è profondo rispetto fra noi in prima linea. Inutile parlare o socializzare, non c’è tempo e non c’è voglia. Anime inquiete, anime inermi forse, davanti all’infinitamente piccolo. Ammetto di avere paura adesso, più di quando sono immerso nel reparto. Ora ogni domanda non ha risposte precise. Non ha proprio risposte. Evito accuratamente pensieri negativi, appesantiscono l’anima e non permettono di vivere bene. Ma si vive bene ora? Impossibile non pensare a chi ho a casa, a chi non ho potuto salutare prima dell’emergenza, a chi non ho potuto abbracciare. Mi rimbalza in mente il proverbio coniato poco tempo fa, “la Cina, non è vicina,” ma caccio via anche questo di pensiero, ormai è un continuo evitare. Evitare le persone negative, evitare pensieri negativi, evitare, per quanto possibile di contagiarsi e di contagiare. Camminiamo come fantasmi lungo i corridoi angusti, ognuno verso la propria destinazione. Giungo al Covid 1. La striscia di nylon mi attende. Oggi siamo cinque in totale, tre infermieri e due O.S.S., operatori socio sanitari. Ascolto quasi attentamente la consegna dei colleghi della notte, i loro visi sono segnati da profondi solchi, solchi che già conosco, da profonda stanchezza. Mi sento un po’ a disagio, sono il più anziano del gruppo e paradossalmente il più inesperto. Ma la mia inesperienza tecnica è compensata da altro. Vedo negli occhi non coperti ancora da copri occhi o schermi, una velatura che evidenzia pianto recente. Qualche trucco sbavato e corretto, gesto rischioso toccarsi gli occhi. Io per formazione o per carattere o per l’età, quando sono dentro una situazione, rimango “sul pezzo”. Questa mia caratteristica è invidiata dai colleghi che mi conoscono da tempo, qui non mi conosce nessuno. Oggi tutti colleghi con cui non ho mai lavorato in passato, non conosco il loro percorso formativo, nulla della loro vita, neppure i loro nomi. “Buongiorno a tutti, sono Graziano, vengo dal territorio, circa trent’anni di psichiatria, ma ho già fatto una notte qui, oggi mi vesto per primo, cosi seguo voi che siete più esperte,” non vedo i sorrisi perché le mascherine chirurgiche coprono le bocche, ma vedo gli occhi sorridere. C’è bisogno di tranquillità, c’è bisogno di placare l’ansia, la tecnica verrà dopo. Inizio la vestizione. Oggi i presidi sono diversi. Incredibile come nello spazio di una notte e di un giorno le cose possano cambiare. In tutti i sensi. Oggi ho una tuta bianca, che comprende anche un cappuccio. Ovviamente sotto il cappuccio dovrò indossare la cuffia. Ai piedi copri scarpe e calzari. Verde brillante. Fisso i calzari con del cerotto, sembro un esperto, sembro… compiuti tutti i rituali indispensabili, indosso la visiera, non ho copri occhiali. Non è necessario neppure indossare il camice sopra. Il mio aspetto è quello di un muratore dello spazio, ma mi muovo bene, certo, le mascherine stringono, la visiera anche ma mi sento protetto, quasi pronto. Con me si veste una collega di 26 anni, Erika, ed un O.S.S. Valeria. Rimarranno nella zona pulita le altre due colleghe. Erika ha due occhi azzurri quasi trasparenti. Tiene sempre lo sguardo basso. Proviene da una rianimazione pediatrica. Due mondi diversi uniti contro il mostro. La psichiatria e la pediatria. Viene naturale pensare come le nostre esperienze diverse possano combattere assieme. Meglio non pensare. Abbiamo molto da fare. Lei è al secondo mattino, io al primo. I quaderni della terapia li avevo già visti di notte. Mi rendo conto di come la mia vista poco acuta sia un problema. Quadratini piccoli su cui scrivere valori o apporre sigle. La visiera però è più facile da gestire rispetto ai copri occhiali. Seguo a ruota Erika che entra in una camera dove sono presenti due uomini e una donna, divisi da teorici paraventi, “Buongiorno cari, come va? Avete dormito questa notte?” la sua voce era accudente, nonostante fosso filtrata dalla mascherina. Io mi limitai con un semplice buongiorno. Cercavo di tenere il fiato, prezioso come non mai. Nessuna risposta da parte dei pazienti, solo qualche cenno con la mano. Troppa fatica a parlare, il fiato è ancora più prezioso per loro. Quanta dolcezza vi è in Erika, quanta paura ben nascosta. Si muoveva elegantemente fra le varie sofferenze. Sicuramente più pratica di me regolava maschere di ossigeno ed occhialini. Io osservavo, non ponevo domande davanti ai pazienti, non volevo far notare la mia imperizia. Procedevamo bene. Terapie endovenose da ripristinare, cure igieniche, e molte altre tecniche invasive e non. La maggior parte dei ricoverati, respirava a fatica, la fame d’aria è terribile anche solo da vedere, figuriamoci da provare. Il sibilo dell’ossigeno che esce dalle maschere o dagli occhialini è fastidioso. Lo collego al mostro invisibile. Invisibile ma presente. Invisibile ma potente. Il sibilo anche se flebile, penetra nelle orecchie, nonostante siano coperte dalla cuffia e dal cappuccio.  Comincio ad essere stanco. Sono circa le tredici. Non bevo, non mangio, non vado in bagno dalle sei di questa mattina. Le mani coperte da tre guanti, reclamano aria. Ma non posso, non devo. Ci chiama la collega dalla zona pulita. “Dai ragazzi, ora entriamo noi due, avete diritto ad un cambio, ma uno di voi deve rimanere però, meglio due infermieri nella zona infetta,” “Rimango io dentro, preferisco così, più rimango più divento pratico.” L’invito fu accolto molto volentieri, ormai ero in gioco e volevo giocare fino in fondo. Rimasi solo in reparto per circa 20 minuti, il tempo della vestizione. Un tempo eterno. Solo con venti persone bisognose di tutto o quasi. Fortunatamente squillò solo qualche campanello con problemi di facile risoluzione. Entrarono Valeria e Sara.  Entrambe giovanissime. Valeria si era laureata da poco. Aveva già avuto esperienze lavorative, ma in maniera discontinua. Anche lei, come Francesca, sembrava un fuscello dentro la divisa, il camice e la tuta. I suoi occhi scuri mi ricordavano in maniera impressionante mia figlia maggiore. All’estero per studi. La vidi l’ultima volta i primi giorni di febbraio, prima dell’emergenza, la accompagnai all’aeroporto. Si parlava già di Coronavirus, ma tutto era lontano. Ci eravamo sentiti la sera prima, via telefono, assieme al resto della famiglia. Una video chiamata in realtà. Entrambe mi sembravano inermi di fronte al mondo, ma questa era la mia emozione dettata dalla paternità, non dalla realtà. Almeno quella che vedevo. Dirottai il mio pensiero verso dati di realtà che mi tranquillizzavano. Se mia figlia era fuori per studi, prossima alla laurea, con esperienze lavorative e di formazione in Italia ed all’estero, era assolutamente in grado di affrontare l’emergenza e lo stesso pensiero era rivolto a Valeria. Collega non figlia. Competente, adeguata alla situazione, pronta a tutto, anche all’emergenza. La visita medica era ormai finita. Rimaneva da fare un solo prelievo, un controllo ad un paziente non grave, una persona che respirava autonomamente, senza l’ausilio di maschere, o cannule nasali.  Insieme entrammo nella stanza. Una stanza occupata da tre letti con pazienti automi. L’unica stanza. Il loro tampone aveva dato esito positivo, ma il virus per motivi ancora sconosciuti era stato meno aggressivo. Valeria si avvicinò al paziente con tutto l’occorrente per il prelievo. “Buongiorno Mario, tutto bene? Devo fare un prelievo, un controllo, nulla di grave. “Sì certo“ rispose Mario. Mario aveva 57 anni, due più di me. Questa situazione mi turbava alquanto. Praticamente coetanei, posti dal destino in situazioni opposte. Mario aveva molti capelli, al contrario di me, calvo e rasato. Guardavo con invidia i suoi capelli, anche se visibilmente tinti. Mi avrebbero fatto comodo come utile cuscinetto per gli elastici delle mascherine. Era sdraiato nel letto e sorrideva, senza mascherina sul volto, era appoggiata sul comodino. Grandi occhi azzurri osservavano con interesse Valeria e me, che non avevo ancora parlato e mi ero posto lateralmente, per non essere invadente nei confronti del paziente. Valeria con tono molto gentile, disse, “Per piacere Mario, potrebbe indossare la mascherina? Il nostro protocollo prevede questo, è una sicurezza per tutti.” Nessuna risposta da parte di Mario. Valeria rinnovò l’invito. “Mario potrebbe mettere la mascherina? Cosi posso fare il prelievo con tranquillità.” Mario rispose, “Da qualcuno l’ho presa sta roba, che mi frega degli altri. E poi la mascherina tu c’è l’hai.” Valeria non rispose nulla, rimase immobile, dalla mia posizione riuscivo a vedere i suoi occhi, coperti dai copri occhiali. Li notavo appena, ma quel poco mi bastava. “Valeria, fai fare a me il prelievo, è da anni che non ne faccio più, Mario ha delle belle vene mi sembra, dai che provo.” Silenzio interlocutorio. Quindi mi avvicino e prendo l’arcella, cioè il piccolo contenitore dalle mani di Valeria. Immediatamente Mario, si siede sul letto, allunga la mano verso il comodino e afferra la mascherina. La indossa in fretta e furia. Tiene lo sguardo basso. “Stia pure sdraiato, cosi ho più spazio nel letto, grazie,” ribadii io incalzante, ma mantenendo sempre un tono garbato. Mario non si aspettava una risposta del genere, e soprattutto una velocità di reazione tale da impedire altre risposte. Ormai sono a pochi centimetri da lui. Valeria ha fatto spazio. “Non abbia paura Mario, le sue vene sembrano belle. “Mario continua a tenere gli occhi bassi. Forse si è reso conto di ciò che ha detto, di quanto ha ferito Veleria, me e l’intera umanità. Posiziono il laccio. Picchietto sul braccio per fare inturgidire le vene. “Non sono cosi belle,” penso fra me e me, ma ormai è fatta. Tolgo il piccolo involucro che ricopre l’ago. Lo guardo con attenzione. La mano non mi trema è in difficoltà per via dei tripli guanti e anche per l’offesa ricevuta. Picchietto ancora. Mario è più nervoso di me. Io in realtà sono tranquillo. Ho quasi fermato le emozioni. Per ottenere certi risultati in certi momenti si deve fare così. Complicato, ma non impossibile. Con il pollice della mano sinistra tiro la pelle del braccio, con l’altra mano afferro l’ago. Un gesto delicato e l’ago penetra la pelle e entra nella vena, lo vedo dal sangue che si insinua nel tubicino. Le provette si riempiono in fretta…tolgo l’ago, metto il cerotto, mi giro e vado via, Valeria mi segue. Non un saluto. Non un cenno da parte nostra. Usciamo dalla stanza lasciandoci alle spalle la cattiveria. Giunti dinanzi al carrello, Valeria mi ringrazia. Vedo i suoi occhi umidi. “Grazie a te” rispondo io. “Dai, andiamo avanti, non ci ferma nessuno…

Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.

A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

“Le tre di notte, il rito della vestizione. Infermiere in corsia”

La collega oltrepassa la striscia di nylon, pochi passi e scompare dietro una deviazione del corridoio che porta nel cuore del reparto. Rimango oltre la striscia, nella zona “pulita” sento i suoi passi percorrere avanti ed indietro il corridoio nascosto, poche pause, poi altri passi.  Vorrei essere invisibile e protetto e vedere cosa c’è oltre. Ma è solo questione di ore. Torno in medicheria, la giovane collega su mia precisa richiesta, mi spiega cosa sono le sigle sulla consegna e come si montano le maschere Venturi e altro ancora. Da insegnante universitario e tutor di poche ore fa, mi trovo ora nelle vesti di studente e… tirocinante. Quanti particolari da imparare nel giro di poche ore. Prendo appunti, ma inutile farlo, tanto non avrò il tempo per rileggerli. Sono già le due… stranamente né io né la collega parliamo della nostra vita privata, sembra che vogliamo tenere fuori la nostra esistenza da questa situazione caduta improvvisamente sopra di noi, e sembra sull’intero mondo. Sono le due e trenta. “Dobbiamo cominciare a vestirci, ci vuole tempo…” dice Francesca, “Sì giusto, iniziamo,” rispondo con voce sicura ed anima tremante. Con celerità iniziamo a prendere i vari presidi dagli armadi e dalle scatole. È la prima volta che mi vesto così. Apro la confezione del camice chirurgico, un camice di un colore blu acceso, al suo interno vi è un grosso fazzoletto bianco, lo afferro per gettarlo ma la Francesca mi ferma dicendo, “No, fermo, quello lo mettiamo al collo, è utile.”  i presidi sono tutti diversi, la collega prima aveva usato un altro indumento ancora. Guardo la collega, la osservo e la imito, lei ha… un giorno di esperienza in più di vestizione, esperienza preziosa. A turno ci leghiamo, il camice da dietro, con lacci che penzolano dai lati. Le mie spalle larghe, premono contro il camice, Francesca è costretta a fermare i lembi con abbondante cerotto di seta, e io devo fare altrettanto con lei per il motivo opposto. Lei scompare all’interno dell’indumento. Il fazzoletto bianco è arrotolato intorno al collo, anch’esso incerottato abbondantemente. Poi indosso una cuffietta leggera, traforata e trasparente, una cuffietta da sala, seguo il consiglio di Francesca e la posiziono fino alla fronte. Essendo piccola, lascia scoperta la nuca, ma fortunatamente abbiamo un altro copricapo, che, avendo forma diversa, lascia scoperta la fronte, ma copre la nuca. Si lega sul davanti. Sento già il sudore scivolare lungo la schiena e non sono nemmeno a metà della vestizione. I camici, di taglia unica, coprono al massimo fino al ginocchio, almeno per le persone alte come me, quindi bisogna trovare delle soluzioni. I copri scarpe hanno uno splendido colore, ma il colore non spaventa il virus, coprono solo gli zoccoli. Li indossiamo comunque, ma poi prendiamo due sacchi neri della spazzatura, quelli dove si gettano i rifiuti di ogni tipo, e dopo aver messo le gambe dentro, li sagomiamo sempre con il cerotto di seta, cerchiamo di dare una forma ergonomica, meglio non inciampare all’interno del reparto. Non riesco a definire la sensazione che provo. Indossare dei sacchi della spazzatura. Mi proteggo o proteggo io qualcuno? E mi proteggo o proteggo qualcuno con dei sacchi della spazzatura? Non è l’estetica che mi disturba. I pazienti riconosceranno me e la mia collega come professionisti o come cosa? E come si percepiranno loro? Tolgo questo pensiero dalla mente, lo rinchiudo dentro al sacco, non voglio che esca, forse adesso la paura è più forte e ogni pensiero è invadente. Io e Francesca non riusciamo nemmeno a guardarci negli occhi, forse anche lei ha pensato la stessa cosa, ma preferisco non chiedere. Prendo un paio di guanti, color bianco latte, con le maniche più lunghe, taglia XL, l’unica confezione presente. Francesca prende le forbici e fa un piccolo foro vicino all’elastico delle maniche, “Infila il pollice, cosi il camice non scappa e il polso rimane coperto,” seguo senza fiatare le sue istruzioni.  Aiuto anche lei nella stessa operazione. Poi indossiamo un altro paio di guanti sopra, i miei entrano a stento. Cerco di non lacerarli. Non vi sono guanti di una misura più grande. Adesso prendiamo un altro camice, spesso, pesante. Il suo verde acceso, è quasi bello. Non ha tasche, solo lacci che si annodano da dietro. Impossibile fare da soli questa operazione. Infilo le braccia, Francesca da dietro tira il camice e poi lo lega. Io aiuto lei, stringo il più possibile i lacci, ma il suo esile corpo non riempie nemmeno il doppio camice, sono costretto ad usare nuovamente il cerotto di seta, “Sarà un bel problema toglierlo dopo,” dice Francesca quasi ansimando. Io cerco di azzerare le emozioni, penso solo al qui e ora, il domani è un’ipotesi, forse perché è troppo lontano. Ma le emozioni non si possono azzerare, non ci si abitua alla sofferenza, non ci si abitua al dolore, non ci si abitua alla morte. Nessun camice, nessun guanto, nessun copri collo attaccato con il cerotto ci difende da questo. Nemmeno i sacchi della spazzatura che indossiamo… vestiamo la corazza del coraggio, piena di crepe, piena di fori, ma incredibilmente solida ora. Il tempo è passato inesorabilmente e noi siamo ancora sprovvisti della barriera più preziosa. La mascherina e gli occhiali protettivi. Francesca mi porge la mascherina FFP3, ha un colore bianco pallido, ai due lati ha dei filtri che sporgono. Indossarla non è semplice, soprattutto perché dopo si deve togliere senza toccare l’interno. Grosso problema per me che ho gli occhiali. Guardo la collega, afferra con una mano la mascherina e con l’altra il doppio elastico. Posiziona la mascherina sul muso e un elastico alla base della nuca e l’altro in altro. Poi sopra rimette la chirurgica.  Io devo togliere gli occhiali, cerco di fare la stessa cosa. Riesco al secondo tentativo. Non avendo capelli, la cuffia fa effetto velcro e l’elastico non scivola, ma stringe come un pensiero di morte. Ferma quasi la circolazione, ma per far aderire la mascherina cosi deve essere. Rimetto gli occhiali, e la chirurgica. Non parlo, sento le orecchie tirare verso il viso. Un dolore insidioso. I miei occhi si girano verso l’orologio. Le tre meno dieci. Troppo tardi o troppo presto? Esce il mio fiato dall’alto della mascherina, o forse esce dai filtri, non lo so. Adesso devo indossare gli occhiali copri occhiali. Sembrano una maschera da sub, ma qui non devo immergermi nel blu infinito per vedere i coralli o ricci, qui mi devo immergere nell’ignoto, nella malattia, nella morte forse. Li indosso con fatica. Mi stringono sul naso, dietro le orecchie, sulla fronte e l’elastico dietro comprime anche il cervello. Ma la sensazione di compressione mi fa sentire più protetto, ma protetto da cosa? Dal fiato dei pazienti, da me stesso, dalle mie paure, dal virus? Non c’è più tempo per pensare, non c’è più tempo nemmeno per guardare l’orologio. Ci controlliamo a vicenda io e Francesca. Vedo appannato. Il fiato arriva anche dentro i copri occhiali. Camminiamo verso la striscia di nylon. Il rumore dei sacchi che toccano il pavimento dà la sensazione di muoversi strisciando. Il nastro di nylon è ormai a pochi centimetri da me. Adesso sento il cuore battere dentro i due camici. Il mio fiato comprimere le mascherine e premere con forza per uscire. Non voglio far entrare l’aria, ma devo pur respirare… anche se forse non vorrei.  Oltrepasso la striscia, il buio è profondo… ormai sono dentro.

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A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

“Si apre la porta del Covid 19, una lacrima il primo incontro. Infermiere in corsia”

L’odore di candeggina accompagna il mio ingresso in reparto. A pochi metri da me una striscia di nylon bianca ed arancione sostiene un cartello fatto con carta da fotocopiatrice. La scritta è eloquente, VIETATO ENTRARE.  Entro con cautela nella “zona pulita.” La stanza è visibilmente riorganizzata, grandi scatole accatastate coprono le pareti, sopra ogni ripiano contenitori con pistole a spruzzo gocciolano copiosamente. Una grande finestra aperta, si affaccia nel buio. Solo qualche luce lontana scintilla silenziosa. Una giovane ragazza, con lunghi capelli neri mi saluta, esile come un fuscello. Un’altra giovane donna esce da una porta laterale. Il suo passo è più deciso. Capelli corti, occhi chiarissimi. Mi presento, “Ciao, sono Graziano, questa notte lavorerò qui. Ditemi tutto, io alle spalle ho 30 anni di psichiatria, voi?”.  Un grande silenzio… Poi, “Qui va bene tutto, nessun problema, io ad esempio ho bisogno di uno psichiatra, sono cosi fusa che non ricordo neppure il mio nome.” Ridiamo tutti assieme, nel frattempo mi siedo. Guardo il cartellone dei pazienti. 20 ricoverati, un solo posto libero. Da un’altra porta vedo arrivare un’altra collega, la riconosco dalla divisa. Il volto è coperto dalla mascherina in basso e dei profondi solchi in viso e nella fronte, intravedo la base del naso, sembra arrossato, ma non oso chiedere nulla. Sono l’ultimo arrivato. In attesa della consegna, per non rimanere fermo prendo una bottiglia con lo spruzzo, una manopola e comincio a detergere tutto. Nonostante la mascherina l’odore pungente di candeggina penetra le mie narici. Le maniglie sono i primi bersagli, poi ripiani, tavoli, scrivanie, stipetti, non manco nessun bersaglio. Ormai siamo tutti presenti. Inizia la consegna. La collega arrivata dalla porta del corridoio, inizia a parlare con dovizia di particolari. Il sig. xxx, è portatore di Venturi al 4% di ossigeno, satura al 90% ma in aria libera va sotto l’80%, l’EGA in aria libera è pessimo, in ventilazione discreto. PO2 nei limiti della norma, ma ieri molto peggio. Deve ripetere l’EGA domattina, più tutti gli esami in urgenza. Non ha un buon emocromo, e gli enzimi epatici sono tutti alterati, inoltre è KC positivo. Ha avuto due scariche diarroiche, feci non formate. Il secondo tampone al Coronavirus ha dato esito positivo. La mia mente comincia a girare vorticosamente. “La Venturi? Questa è un’avventura altro che Venturi.” Penso fra me e me, poi guardo il foglio della consegna, vi sono una serie di simboli accanto alle parole che sicuramente hanno un significato… ma quale? Non mi perdo d’animo, basta chiedere, ma non ora. Ascolto con estrema attenzione il resto della consegna. Le mie mani sono ferme, anche la mente lo è. Finita la consegna rimango con altre due colleghe. Siano fortunati ad essere in tre… senza dire nulla, una delle due, forse per rispetto della mia calvizie e barba bianca, dice, “Mi cambio io, inizio da sola, poi verso le tre venite voi e io resto nella zona pulita. Domattina vi sono 16 prelievi e 12 EGA, meglio essere in due. Alle 6,00 vi è anche molta terapia. Soprattutto endovenosa, qualcosa è già preparato, il resto è da preparare. Meglio che inizio.” Come un automa apre un armadio e tira fuori una serie di presidi, una tuta bianca da “imbianchino,” con un cappuccio, calzari azzurri per gli zoccoli, calzari verdi che coprono fino ai polpacci, due sacchetti dalla spazzatura piccoli, anche se non capisco l’uso, un grosso e pesante camice verde con dei lacci laterali e dietro, un paio di guanti con le maniche lunghe, un paio di guanti con le maniche più corte, poi cerca dentro l’armadio altro. Già solo per la prima ricerca sono passati molti minuti… Dopo estrae degli occhiali apparentemente da palombaro, di plastica trasparente, che coprono anche la parte laterale, degli occhi.  Poi inquieta ma concentrata prende da un altro armadio l’oggetto più indispensabile. La mascherina ffp2. Ci guarda e dice, “Ne abbiamo solo tre per questa notte e quattro per domattina, non dobbiamo sprecarle. Io guardo le mascherine con estremo rispetto. Il mio sguardo è fisso sopra di loro… non voglio guardare la collega, provo un enorme rispetto per la sua sicurezza. Ma ad un tratto vedo il suo volto corrucciarsi, gli occhi si inumidiscono. Lei sente il mio sguardo addosso, “Scusate la candeggina mi irrita gli occhi,” poi si gira e va in bagno, sento che strappa della carta. Non so che fare o cosa dire, l’altra collega ha lo sguardo basso. L’odore di candeggina e davvero pungente, viene da piangere anche a me… Si mi viene da piangere non da lacrimare. Mi alzo e vado verso la finestra, respiro ad ampie boccate, guardo il buio, il nero, il vuoto, l’incertezza. Le mie mani sono appoggiate al davanzale, le immagino già contaminate. Poi lentamente torno in me. Mi giro e dico, “Vado io se vuoi, nessun problema,” “No, non puoi, non conosci i pazienti e sei del tutto nuovo, andrai dopo con Francesca, io me la cavo benissimo, è la seconda notte che faccio,” “Va bene come vuoi tu”. Rispondo io quasi bloccando il tempo ed il respiro.  Quindi la giovane donna, la giovane collega, inizia la vestizione…

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A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

“La fede dentro un libro ed il viaggio verso il Covid 19. Infermiere in corsia”

Siamo a cena. Si sente solo il tintinnio delle posate che urtano i piatti. Forse fanno più rumore i pensieri. Una semplice frittata ed un’insalata. La voglia di cucinare è scappata via, accompagnata dalle brutte notizie. Le parole sarebbero un contorno amaro, poco digeribile. Silenzio. Un silenzio molto rumoroso. “Vado a riposare un po’, cosi sarò più fresco dopo,” mi ritiro in camera. Chiudo gli occhi ma immagini viste ai notiziari mi impediscono di riposare. Meglio alzarsi e prepararsi. Aspettare è una tortura. Indosso una tuta, più pratica, si leva prima e si lava in fretta. Saluto senza guardare, da un’altra stanza. Non voglio vedere nessuno e non voglio essere visto. Un ultimo gesto. Tolgo l’anello nuziale, la fede, e la ripongo dentro un libro. Un oggetto che potrebbe essere d’intralcio alle attività. Mi sento nudo, solo. La mancanza di un anello può darmi questa sensazione?  L’auto puzza di umidità. Forse puzza di paura. Non accendo nemmeno la radio. Voglio sentire il mio respiro, la strada quasi deserta, poche auto scivolano sull’asfalto come pensieri impazziti. Dopo poco, troppo poco, eccomi davanti al nosocomio. Grande per gli uomini, inerme di fronte al virus. Le finestre chiuse sembrano occhi, incapaci di guardare la realtà. Chiusi per nascondersi e per nascondere. A passi veloci salgo per la salita, tutto inizia con difficoltà. La salita non è ripida ma è lunga… apro la grande porta, la spingo con forza, è pesante, scricchiola, cigola, sembra lamentarsi di qualcosa di indefinito. Dopo pochi passi le mie narici vengono riempite di un odore acre, acido, irritante. Mi vedo bambino quando, mi recavo con i miei genitori in ospedale. Qui tutto odorava di alcool e segatura, anche altri odori aleggiavano, erano odori che toglievano l’appetito… rimanevo in portineria, i bambini non potevano entrare.  Ma adesso per me la portineria è solo un passaggio. Le scale luccicano, forse piangono. Le luci riflettono sopra i marmi pezzi di luce fastidiosa. Corridoi vuoti. Nessun passo, nessun rumore. Solo silenzio. Porto con me in una busta di carta la divisa, le scarpe nient’altro. Nelle tasche solo la chiave dell’armadietto la carta d’identità le chiavi della macchina e di casa. Si di casa… l’unico rumore è il cartellino che passando suona. Un suono stonato. Acuto, penetrante. La mascherina chirurgica respinge il mio respiro, l’umidità è fastidiosa. Sento l’odore dell’anima forse, quell’anima che non si lamenta, quell’anima che mi accarezza, quell’anima che spinge i cattivi pensieri altrove. Anche lo spogliatoio è vuoto. Sono in enorme anticipo, ma questo è il modo di essere. Odio il ritardo. Il rumore metallico dell’armadietto è l’unica compagnia, ma è grigio, arrugginito, piegato da anni di passaggi. Lo trovo brutto, spento, non d’aiuto. Le macchie di ruggine sembrano cicatrici e lacrime. Devo cambiare pensieri. No. Non devo iniziare cosi. “Tutto andrà bene, tutto andrà bene, “ mi ripeto, imitando gli hashtag del momento. Esco dallo spogliatoio. Percorro il lungo corridoio, mi guardano solo i muri. La statua dell’androne è troppo seria per me. La saluto con un “Arrivederci a domani, non andare via, “  poi mi metto a ridere da solo, ma questo si deve fare. Ridere e sorridere. La tristezza non deve accompagnarmi. La tristezza è cattiva consigliera, ti costringe a vivere male, per poi dissetarsi delle tue lacrime. Non voglio darle da bere. Devo farle soffrire la sete e la fame. Le scale mi sembrano poco faticose adesso.  Giro a sinistra… ecco ci sono.  Un grosso sospiro, un grande sorriso nascosto dalla mascherina ma visibile all’anima. Suono il campanello…

Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.

A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

“La telefonata. Io ed il Covid 19. Infermiere in corsia”

Era circa metà gennaio: in Italia arrivavano spot, notizie di una nuova influenza, provocata da un virus non ben definito. L’epicentro era la Cina. Si vedevano immagini di mercati dove animali morti come pipistrelli, topi, serpenti, cani e animali vivi, ammassati e malnutriti erano in vendita davanti a una massa incredibile di persone, che si accalcava per acquistarli. Ero distratto da altro, famiglia da accudire, presentazioni di libri in programma, lezioni universitarie da preparare e quotidianità da svolgere. Per rassicurarmi coniai un piccolo proverbio, “la Cina non è viCina”, così facendo, chiusi la mia paura in un cassetto e mi gettai nelle mie attività. Il tempo passava e i telegiornali, sempre più insistentemente distribuivano notizie riguardo l’influenza e nel frattempo, dosavano paura e ansia.  Ma era periodo di carnevale, le maschere…si devono indossare… anche se il mio proverbio, “la Cina non è viCina” stava lentamente sgretolandosi davanti alle immagini che vedevo. Primi di marzo…qualche caso in Italia, la Cina adesso era qui…si iniziarono a prendere timidi provvedimenti, palestre chiuse, consigli pratici, del tipo “non fate assembramenti” ed episodi di razzismo verso la comunità cinese, per condire la già felliniana situazione. La condizione di colpo precipita, i casi in Italia si stanno moltiplicando, Veneto 40 casi, Lombardia 150, Emilia 70. Piemonte, 30. I telegiornali adesso non sono più rassicuranti, non distribuiscono più immagini lontane, paura e ansia ma spargono immagini vicine, terrore e panico. Vado a lavorare in ambulatorio, la psichiatria non è un reparto di malattie infettive, ma ora anche qui si lavora con mascherine chirurgiche, (poche) e si misura la temperatura ai pazienti. Vedo negli occhi degli utenti e dei colleghi una grossa inquietudine, soprattutto per la cattiva gestione delle risorse umane.  Un giovedì arrivo a casa dopo una giornata di lavoro, tutto sembra grottesco ma quasi normale. Verso le 18 ricevo una telefonata, un dirigente ASL quasi gentilente mi dice, “Di Benedetto, verrà contattato dalla direzione, da domani è distaccato presso il reparto Covid 1, la coordinatrice darà lei disposizioni, buona serata” quel buona serata stonava molto. Non lavoro più in un reparto di medicina da almeno 30 anni, la mia specialità ormai è un’altra, ma non ho avuto né modo né tempo per discutere, dopo cinque minuti ricevo un’altra telefonata, era la coordinatrice. Molto risoluta, forse arrabbiata, non riuscivo a capire il suo stato d’animo, a malapena capivo il mio. “Buonasera Di Benedetto, domani se la sente di fare la notte? “ – “Si certo, se necessario si” – “ Non è necessario è indispensabile “ –  “ Va bene, dove devo andare?” – “Covid 1 ex chirurgia, dalle 23 alle 7, ma si presenti prima, la vestizione è lunga, grazie per la disponibilità a presto.” In meno di 15 minuti, la mia vita lavorativa era totalmente mutata, nessuna sicurezza, nessuna certezza, dovevo rispolverare immediatamente dal cassetto della memoria tutte le tecniche imparate 30 anni fa, la parte emotiva la gestisco bene, questa è ora la mia formazione, il mio lavoro, gestire l’emotività altrui, no… ho sbagliato, questo era il mio lavoro fino a questa mattina. Adesso c’è la parte più difficile da affrontare, dire alla famiglia che tutto sarà diverso, che tutto cambierà e che forse… no non voglio pensare al forse. Lo lascio in un altro cassetto, socchiuso però, non devo chiudere la paura di ammalarmi, se si è troppo tranquilli si è anche troppo distratti. Bisogna essere presenti a sé stessi, per aiutare gli altri e non incappare in grossolani errori. Entro in casa, non dico nulla, devo cercare le parole, ma devo essere chiaro, pulito non illusorio, anche mia moglie è infermiera, non posso raccontare fandonie e la figlia presente ha il grosso difetto di essere intelligente. Tutto d’un fiato dico: “Da domani vado a lavorare al Covid, dove ci sono persone affette da Covid 19, tutte positive, devo reinventarmi, non so nulla a dire il vero, se hanno respiratori, se hanno accessi venosi centrali o periferici…vedo. Quando arrivo mi organizzo, tutto qui.” Lo sguardo di mia moglie è eloquente, vorrebbe fare molte domande, ma adesso non è il momento, un semplice, “stai attento, tutto andrà bene” evita di smascherare particolari troppo crudi, forse indigeribili. Mangiamo in religioso silenzio, non voglio anzi non vogliamo sentire il telegiornale, siamo già troppo infarciti di paura, ascoltiamo mia figlia che nel frattempo sdrammatizza con la sua solita allegria. Il suo sorriso mi accarezza, il suo sguardo mi consola. Gioco con la pietanza, mi è passata la fame, ma faccio finta di niente, controllo le mie tensioni… sparecchio con cura, metto a posto ogni cosa, tentativo vano di mettere a posto i pensieri. Il silenzio regna sovrano in casa, ognuno è in stanze diverse, non si devono incrociare gli sguardi.  Da domani tutto cambia…

Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.

A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

SCRIVERE PERCHE’: “Scrivere di emozioni”

Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.

A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

Si dice spesso che la scrittura sia un dono della natura e che pochi fortunati siano in possesso di tale dote. Vado controcorrente ed affermo che tutti possono scrivere emozionando ed emozionandosi.

Pongo alcune domande: “Chi non è mai stato innamorato? Chi non ha mai subito una delusione amorosa? Chi non ha mai subito un lutto o litigato con colleghi, amici, familiari…o chi non ha mai assistito ad eventi particolarmente forti?

Ecco, di questo si deve narrare. Se non si vogliono mettere in gioco le proprie emozioni, l’osservazione è la base di una scrittura efficace. Tutto è fonte di emozioni, tutto è fonte di scrittura. Altro elemento da non sottovalutare è l’utilizzo dei sensi che normalmente usiamo, come l’olfatto: gli odori o i profumi scatenano ricordi antichi, forti, che colpiscono dritto allo stomaco.

Una minestra indigesta potrebbe diventare una pagina piene di emozioni scritte:

“Scendevo le scale che conducevano alla mensa, scale bianche come il latte, piene di venature rosa, come capillari malati, superficiali. La puzza di minestra colma di verdure vecchie, bollite e strabollite mi entrò nelle narici. La puzza si fece strada dentro i polmoni, dilatandoli fino a scoppiare. Broccoli marci come i pensieri della monaca che controllava i poveri bambini, inquadrati come soldatini feriti e senza futuro….”

Questo è solo un piccolo esempio di ciò che si potrebbe scrivere. Un inizio. E tutto nasce dalla puzza o odore di una minestra indigesta. Il resto viene da se. Lasciamo libere interpretazioni ai lettori e continuiamo scrivere sfruttando semplicemente il mondo che ci circonda.

Tutto è scrivibile e DESCRIVIBILE.

 

SCRIVERE PERCHE’: “Violenza domestica e scrittura”

Perché una rubrica? Perché una rubrica con dentro contenuti di uno scrittore attore? Semplicemente perché l’arte non è solo apparire ma è anche lavorare con se stessi per approdare a risultati di cui tutti possono fruire. Leggere… leggete… troverete un mondo dentro gli spazi bianchi fra le righe nere.

A cura di Graziano Di Benedetto

Scrittore – Attore

“Dietro una mano” il mio ultimo romanzo che narra di violenza domestica, sta diventando con il passare del tempo e delle presentazioni, oggetto di dibattiti sempre più accesi ed interessanti. Il testo è inserito nella bibliografia di dispense in master universitari, dove sostengo la docenza. Durante le presentazioni nei vari comuni o in biblioteche, parti del testo, lette ed interpretate, scatenano emozioni e reazioni di rabbia, di comprensione, di curiosità e altro ancora. Ma l’emozione imperante però è quella che investe me, come conduttore e come portavoce di silenzi obbligati. La violenza domestica è ancora in gran parte, non solo nascosta, ma addirittura giustificata. Una domanda frequente che viene posta è: “Ma cosa ha commesso la vittima per causare una reazione simile?”. Questa domanda lascia dietro di se, silenzi spessi come nuvole temporalesche, nessuno del pubblico osa ribattere, guarda con occhi smarriti il vuoto, evita l’incrocio con altri sguardi, come per difendersi da chissà che cosa, forse dalla domanda stessa. Il dato che emerge purtroppo è che la cultura considera ancora la violenza sulle donne come una situazione normale, quasi da giustificare, o da tollerare; la domanda in questione taglia trasversalmente varie fasce d’età, dai 16 ai 70 anni ed è posta sia da uomini che da donne. Fortunatamente però, qualcosa sta cambiando. Il pubblico nelle sale è sempre più numeroso, sempre più attento e spesso sono presenti anche ragazze adolescenti, agguerrite e preparate. La scrittura in questo caso è uno strumento di diffusione del fenomeno. Il romanzo è sicuramente più fruibile rispetto ad un saggio. Non si parla di statistiche, ma di episodi di vita quotidiana, scandita da violenza psicologica e fisica. Si deve scrivere ciò che si può, liberi da censure, liberi da pregiudizi e con il coraggio di affrontare “giudizi” altrui.  Solo scrivendone e parlandone il fenomeno  viene compreso, elaborato e combattuto. Si deve arrivare a tutti, uomini e  donne di qualunque età. Purtroppo ciò che vediamo e sentiamo attraverso i media è solo la punta di un iceberg. Grande omertà si nasconde dietro tende e pareti di case apparentemente felici.

Per questo si deve scrivere. Per dare la possibilità di sapere…la cultura aiuta, la cultura salva.

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