PsiCHIcoline: “Le parole incontinenti”
“Le nostre parole sono spesso prive di significato.
Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate,
svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole.
Le abbiamo rese bozzoli vuoti.
Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole.
Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore.
E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.”
GIANRICO CAROFIGLIO
Negli ultimi anni capita sempre più spesso di leggere o ascoltare situazioni in cui qualcuno esprime pensieri, esternazioni, commenti, insulti ed offese più o meno espliciti per poi rendersi conto, per via del clamore negativo di ritorno, di avere detto qualcosa che ha suscitato sdegno, clamore, denunce, ecc. Di questa modalità comunicativa oramai non ne è esente quasi nessuno, persone comuni ma anche politici, governanti, persone dello spettacolo, della cultura, proprio tutti, nessuno escluso. Le parole sembrano ad un tratto fluire in modo incontinente, senza filtri, senza riflessione senza appunto contenimento, evacuate come se fossero proferite senza essere state pensate, trattenute, “mentalizzate”. Le reazioni inducono poi, a volte, a fare dietrofront con frasi del tipo: “non pensavo che si arrabbiasse, che avrei ferito, offeso” ecc… Anche nei colloqui psicoterapeutici (di cui ricordo invece il significato: ossia la cura con le parole) ascolto tantissime storie di persone che mi raccontano di dialoghi tumultuosi, tra partner, tra genitori e figli, tra fratelli, tra sorelle, tra amici in cui le parole vengono dette in modo violento e offensivo ma in cui spesso percepisci che molte volte vengono assorbite all’interno di quel sistema familiare/relazionale in modo acritico, come una modalità comunicativa “normalizzata”: “ sclerare”, “smattare” “impazzire” sono termini usati per definire degli episodi in cui si perde il controllo e la comunicazione; il dialogo cede il posto alle parole urlate, allo sfogo fine a se stesso. Il retro pensiero sembra essere quello del “sono solo parole” come arrivano poi se ne vanno; non rimangano, non sedimentano, non hanno bisogno nemmeno di cicatrizzare perché se ne sminuisce la capacità ferente. E se questo accade nelle relazioni interpersonali ancor di più accade in quelle virtuali, dove l’altro è ancor più distante empaticamente, per cui nella legittimità del libero pensiero, viene scardinata ogni forma di rispetto e di limite che le parole, anche se scritte dovrebbero (e qui uso, ahimè, il condizionale) continuare ad avere.
Questa forma dunque di comunicazione aggressiva la ritroviamo frequentemente su internet nei vari social network, forum, blog e chat dove, rispetto al mondo reale, spesso assume una forma molto volgare e violenta perché non c’è un coinvolgimento diretto (i famosi leoni da tastiera) per cui l’anonimato in molti casi consente alla persona aggressiva/invidiosa di sfogare più liberamente i propri impulsi distruttivi. Molte cose dette o scritte su internet non verrebbero di certo riproposte in un’interazione faccia a faccia (eccezione fatta per il gruppo come branco). Esempio: Ciao come stai? Risposta: “Ma sparati da quanto fai schifo e sei brutta!”
Ma cos’è che scatena tale aggressività verbale? In primis, l’aggressività verbale, così aggressività in generale, spesso scaturisce dalla frustrazione, cioè da una situazione nella quale alla persona viene ostacolato o impedito il raggiungimento di un obiettivo o di una gratificazione considerati importanti. Un altro fattore scatenante dell’aggressività verbale può essere rappresentato dall’assenza o dalla carenza di un’adeguata competenza assertiva, intesa come la capacità di sostenere e difendere in modo efficace le idee precedentemente proposte. Spesso cioè le persone hanno delle basse competenze argomentative e sentono l’esigenza di rispondere a ciò che viene espresso dagli altri e di sostenere le proprie opinioni, ma non possiedono elementi per farlo in modo convincente oppure non sono di grado di esprimerli in modo adeguato. Alla base di tale comportamento si cela spesso una persona insicura e fragile che attacca per non sentire inconsciamente il peso della propria incapacità comunicativa e persuasiva. Infine l’aumentare degli aspetti narcisistici sta mutando ciò che fa soffrire di più molte persone, ossia oltre la maggiore vulnerabilità e il sentimento di vergogna, è aumentato l’aspetto emotivo dell’invidia ossia avere un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede (persona o oggetto) oppure sentire il desiderio di distruggere ciò che l’altro ha o rappresenta. L’individuo non ha qualcuno/qualcosa e vorrebbe ardentemente averla. In alcuni casi, nell’invidioso/a, esiste il desiderio che la persona invidiata perda l’oggetto (bene o affetto) senza che l’invidioso ne tragga poi effettivo vantaggio. Da qui il vedere e il bramare tutto ciò che gli altri hanno, spesso in maniera falsata e artificiosa, accedendo ad una infinita e innumerevole platea che esibisce capacità, bellezza, fama, potere, con un semplice clic, per poi riportati ad una realtà vissuta come svilita e mortificante. L’aspetto dell’invidia non viene quindi usato in modo propulsivo e costruttivo per raggiungere ciò a cui si ambisce ma non si non ha, ma nel sminuire e criticare, umiliare e distruggere ciò che altri hanno.
Lo psicologo Paul Watzlawick diceva che le parole, il modo di dirle, il modo di comunicare ci indica anche il tipo di relazione che c’è fra le persone: se la relazione è basata sulla violenza anche le parole saranno violente. Se una relazione è basata sull’indifferenza anche le parole saranno espressione di indifferenza e noncuranza. Se la relazione è caratterizzata dall’ invidia anche le parole saranno invidiose. S. Freud, diceva: “In principio parole e magia erano una sola cosa, e perfino oggi le parole conservano molto del loro potere magico. Attraverso le parole ognuno di noi può dare a qualcun altro la massima felicità oppure portarlo alla totale disperazione; attraverso le parole l’oratore trascina il pubblico e ne determina giudizi e decisioni. Le parole suscitano emozioni e sono il mezzo con cui generalmente influenziamo i nostri simili”
Kaihlil Gibran scriveva negli anni ‘20 a proposito del Conversare: “Voi parlate quando cessate d’essere in pace con i vostri pensieri; E quando non riuscite più a soffermarvi nella solitudine del cuore vivete sulle vostre labbra, e il suono diventa svago e un passatempo. In molte delle vostre conversazioni il pensiero è per metà ucciso. Poiché il pensiero e un uccello degli spazi, che nella gabbia delle parole può sì spiegare l’ali ma non volare. Taluni tra voi cercano i loquaci perché temono la solitudine. Ne1 silenzio della solitudine si osservano nudi e vogliono allora fuggire via. Ci sono poi coloro che parlano e senza volontà o intendimento svelano verità che loro stessi non comprendono. E ci sono quelli che hanno in sé la verità, ma non le dicono con le parole. É in seno a costoro che lo spirito alberga nel ritmico suo silenzio. Quando lungo la via o nel mercato incontrate l’amico, lasciate che sia lo spirito a muovervi le labbra e a guidare la vostra lingua. Lasciate che la voce nella vostra voce parli all’orecchio del suo orecchio; La sua anima tratterrà la verità del vostro cuore come si rammenta il sapore del vino. Quand’anche il colore è dimenticato e il bicchiere più non è”.
PsiCHIcoline è una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
“Una vita sociale sana si trova soltanto,
quando nello specchio di ogni anima la comunità intera trova il suo riflesso,
e quando nella comunità intera le virtù di ognuno vivono.”
“Ciò che non giova all’alveare, non giova neppure all’ape.”
“L’uomo è per natura un animale destinato a vivere in comunità.”
Rudolf Steiner
Scrivere un articolo ai tempi del Covid-19 non è facile. Avrete letto molte informazioni, a volte chiare, a volte contraddittorie: dati, numeri, statistiche, dietro i quali vi sono però vite, storie, famiglie. Vi è inoltre una difficoltà che riguarda anche un altro aspetto, mai come in questo momento ciò che sta accadendo riguarda tutti noi, nessuno escluso.
E allora parto da qui: Come state? Come stiamo? Riuscite a vedere il bicchiere mezzo pieno o lo vedete mezzo vuoto? Disastro o opportunità? Abbattimento o speranza?
Parto da una riflessione personale: tempo fa condivisi un post su un social in cui c’era la famosa frase “andrà tutto bene” il quel periodo pensai fosse l’iniziativa di una mamma che voleva trasmettere un messaggio positivo e al contempo occupare il tempo dei figli. Allora mi sembrò una bella idea, oggi troviamo questa frase scritta, con un bel arcobaleno, in teli bianchi appesi a tanti balconi. Ma più osservo questa scritta, più passa il tempo e meno mi piace. E non perché non sia una bella frase, ma perché in quel “andrà tutto bene” c’è una speranza che molte persone non possono più condividere; quelle parole non gli appartengono più. E alle persone, alle famiglie, che non è andata bene, vorrei potessero sentirci vicini, compresi. Certo si dirà, la speranza è importante, e questo è profondamente vero, ma è altrettanto importante avere la consapevolezza che stare dentro e accanto al dolore e attraversarlo è una condizione umana che non possiamo pensare accada solo agli altri, e questo sembra essere il messaggio più duro che questo virus ci sta dando.
La paura, l’ansia e il panico, accompagnano il trascorre delle giornate. Alcuni hanno fatto scelte difficili, dolorose, chi tempo fa e chi oggi, distanziando i propri cari più a rischio di salute, quelli lontani, quelli nelle case di riposo, nei reparti ospedalieri, ecc… e non li hanno più visti. Non sono più riusciti a dare loro un abbraccio, un saluto. Un dolore che durerà per sempre. Un dolore nel dolore. Le normative chieste ci hanno imposto di modificare le nostre abitudini basilari, strette di mano, abbracci, frequentazioni, vita sociale, distanziandoci e guardandoci con sospetto, come solo il clima di terrore e panico sa invocare. La preoccupazione per il domani, per il lavoro, per una crisi economica generale, inizia a prendere lo spazio nella mente delle persone che trascorrono insonni molte notti.
Chi ha potuto, ha lavorato da casa, i bambini e ragazzi all’inizio felici di questa inattesa vacanza , hanno iniziato, ad avvertire la noia, la difficoltà a gestire e riempire il tempo, apprezzando e rivalutando quei momenti di socialità e impegni scanditi da una quotidianità che quando la vivi, ti sembra insopportabile, ma quando ti manca ne invochi il ritorno. E poi con il trascorrere delle settimane, gli studenti hanno ripreso un po’ di pseudo normalità con il ripristino di una scuola online, che colta impreparata da questa situazione sta provando, pur con mille difficoltà, ad aiutare a distanza i propri alunni. Genitori stanchi, soli, senza il sostegno dei nonni tenuti a distanza per proteggerli, con la fatica di gestire l’argento vivo insito nella gioventù, che non vuole farsi “chiudere” anche se per il loro bene, diventa una guerra costante; così come al contrario temere le ripercussioni di un isolamento sociale che per molti ragazzi sta diventando normale, persi nella loro bolla virtuale, rinunciano anche solo a prendere una boccata d’aria per accompagnare il cane.
Prendo a prestito la parola di una mia paziente (che ringrazio per avermi autorizzato) che mi disse di sentirsi “alienata” in questa situazione, e se ne ricerco l’etimologia la trovo una definizione puntuale:
Cit: “Nel linguaggio filosofico si intende reso estraneo, ridotto a cosa o natura, senza libertà.
Montesquieu diceva che: “La libertà è quel bene che ti fa godere di ogni altro bene.”
E questo è e il bicchiere mezzo vuoto.
E a tutti noi, la mancanza di libertà ci sta costando? Quanto? Come stiamo reagendo?
Molti avranno reagito cercando di trovare “degli aspetti positivi” anche nella situazione estrema: passare più tempo in famiglia, rallentare i ritmi ecc. Passare accanto ai cortili condominiali che ormai non hanno più la loro funzione socializzante e vedere papà che giocano a pallone con i loro figli è un’immagine così forte e suggestiva da farmi commuovere. Il profumo del pane, delle torte ,delle pizze che inondano le nostre case, fa sussultare il cuore, ci fa tornare indietro nel tempo. Nonni o genitori che imparano a fare le videochiamate ci aiuta, almeno un po’, a sopportare la loro mancanza. Generazioni nuove e vecchie accomunate dalla tecnologia; si è distanti ma ci sentiamo anche vicini.
E questo è il bicchiere mezzo pieno.
E poi c’è un bicchiere speciale che definirei colmo: di bontà, di gratitudine, di senso del dovere, di passione, di sacrificio, di altruismo, ed è colmo delle tante persone che hanno dovuto garantire i servizi, esponendosi in prima persona ed esponendo i loro familiari al contagio. A voi/noi tutta la solidarietà e il nostro grazie. Grazie anche a coloro che se pur con la difficoltà delle restrizioni, hanno facilitato e reso possibile il compito di aiutarvi e sostenervi. Alle professioni sanitarie in primis, ma anche a tutti quelli che hanno continuato a lavorare per andare avanti: negozianti, tecnici, operai, addetti alle pulizie, trasportatori, autisti impiegati, magazzinieri, forze dell’ordine, tantissimi volontari, ecc… tanti, tanti davvero. Un grazie di cuore, perché ci avete fatto sentire parte di un tutto, di una comunità, di un paese, di una nazione, di una umanità.
Affido il mio abbraccio scritto, a tutti voi e ai vostri cari, alle bellissime e profonde parole di Mahatma Gandhi:
“La conclusione logica del sacrificio di sé è che l’individuo si sacrifica per la comunità, la comunità si sacrifica per il distretto, il distretto per la provincia, la provincia per la nazione e la nazione per il mondo. Una goccia strappata dall’oceano perisce inutilmente. Se rimane parte dell’oceano, ne condivide la gloria di sorreggere una flotta di poderose navi.”
PsiCHIcoline è una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
PsiCHIcoline: “Tu prendimi… e portami via”
Qualche giorno fa, mi sono imbattuta in una discussione di alcuni utenti di Facebook. La diatriba riguardava una frase postata da un uomo che scriveva di aver portato a cena la moglie. Un’altra utente commenta a sua volta che il messaggio riprende un modo di dire ormai poco rispettoso nei confronti della donna e sarebbe più corretto dire: “Andiamo a cena insieme” e non ti porto, poiché le donne oggi lavorano e spesso sono economicamente indipendenti. La frase, prosegue l’utente, comunque evidenzia un modo culturalmente scorretto per sottolineare un disequilibrio economico per cui una donna non viene portata a cena ma si va insieme. A sua volta il marito risponde che considera sua moglie la donna più forte e indipendente che abbia mai conosciuto e il suo, solo un modo di dire galante, magari un po’ antico.
Mi aggancio, senza entrare nel merito della questione, per parlare di un argomento che spesso affronto nel mio studio, ossia il desiderio di “essere presi e portati via” nel rapporto di coppia. Non intendo quindi parlare di diritti, di conquiste, un tema a me molto caro e neanche dell’importanza del linguaggio e del suo significato ma vorrei parlare di desideri.. Il desiderio di cui parlo è spesso presente, a volte riconosciuto e a volte no, nelle tante persone che incontro nel mio studio e spesso dico ai miei pazienti che mi ricordano il famoso quadro di Chagall “Sulla città” che raffigura un uomo che vola sopra una città che porta con sé una donna, abbracciandola e sostenendola.
Prendimi e portami via… al mare, in montagna, a ballare, al ristorante, a fare una passeggiata, al cinema, a fare un viaggio…
Portami lontano dalle fatiche, dalle paure, dalle tristezze, dai pensieri, dalle giornate di lavoro, di malattia, di dolore, di aspettative, di attese, di affanni, di ansia, anche solo per un po’, anche solo un momento, una sera, un weekend…
Poi ritorneremo al qui et ora. Prendimi e portami via vuol dire: ascoltami, guardami, curami, sorreggimi, aiutami ma soprattutto occupati tu di me. Alleggeriscimi il peso e balliamo insieme, come se le nostre fatiche non ci fossero, danziamo, godiamo. Ricaricami le energie spente, stanche, non mi far pensare, fammi stare bene, anche solo per un po’… Perché nel prendermi e portarmi via ci si sente meno soli. Soli intesi come non capiti, non sorretti, non aiutati (verità o percezione che sia).
Il prendermi e portarmi via non è una richiesta solo delle donne, ma di entrambi. Certo, spesso sono più le donne che raccontano il peso di tante incombenze, sempre di corsa suddivise tra il lavoro, i figli, i mariti/ compagni, la casa, in un complicato e precario equilibrio. Ci sono anche gli uomini che desiderano essere sollevati e compresi nelle loro fatiche, preoccupazioni, incoraggiati nei loro progetti, “ri-guardati” dalle loro donne. E quando questo non accade, spesso ci si allontana, ognuno ritirato nella propria sofferenza e stanchezza; dietro l’angolo, il gioco non detto o a volte gridato di chi è più stanco e incompreso.
Prendimi e portami via… non è forse il patto degli amanti che lasciano il peso fuori dalla stanza? O l’abbandonarsi dei bambini addormentati sulla spalla di un genitore, degli sguardi degli innamorati o dell’amico dell’adolescenza che ti sostiene contro tutto e tutti? Ci penso io a te, tu fidati, affidati, appoggiati, per un po’, come una promessa, come un’illusione, come in un gioco. Mi piace pensare alla parola portare nella sua etimologia, tra i vari significati ritroviamo: il consegnare, fare un dono, sostenere su di sé, sopportare.
E allora sì, portami a cena, pensaci tu, io scendo dalla giostra del pensare a tutto, anche solo per un po’, anche solo per un’ora, anche solo per una sera.
“Tu portami via
Da questi anni invadenti
Da ogni angolo di tempo dove io non trovo più energia
Amore mio portami via”
Fabrizio Moro
PsiCHIcoline è una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
PsiCHIcoline: “Oggi come ieri, tradizione e condivisione”
“O sangue mio come i mari d’estate!
La forza annoda tutte le radici: sotto la terrasta, nascosta e immensa.”
Gabriele D’Annunzio
Quest’anno per cimento, ho deciso di prendermi un po’ di tempo e dedicarmi a quelle antiche usanze del mettere via le conserve, marmellate e antipasti che mi riportano alle mani sapienti e soprattutto pazienti di molte mamme, zie e nonne. Ed è tra una marmellata ed una giardiniera piemontese in piena “fusion” tra usanze del nord e usanze del sud, che ho focalizzato le riflessioni che desidero condividere. Mentre preparavo questi antipasti ad un certo punto, più che la contentezza, ho iniziato ad avvertire la stanchezza ed il desiderio di finire più in fretta possibile questa “incombenza”, solo dopo ho realizzato che in fondo ero sola, mi mancava la condivisione, il prepararle insieme ad altri. Anni fa girai un piccolo filmato in una giornata di metà agosto in vacanza al mare, in cui riprendevo le mie zie intorno ad un tavolo pieno di melanzane, aceto, verdure, olio, barattoli. Le zie erano operose: chi tagliava le verdure, chi le scottava, chi le metteva nei barattoli e chi le rinvasava d’olio. Una piccola comunità operosa che a turno lavorava prima per se e poi per le altre. Certo la collaborazione non sempre era perfetta, il lavoro in corso d’opera poteva essere criticato: “Taglia di più, riempi meno i barattoli, attenta che così non vengono bene, ecc…” creando a volte malumori e in qualche caso anche litigi. Intorno al tavolo non mancavano mai le chiacchiere, i racconti, spesso anche i pettegolezzi, in una netta distinzione di generi e ruoli: alle donne era affidata la tradizione dei barattoli piccoli, agli uomini la capacità antica nell’accendere il fuoco per la legna, da porre sotto i grandi pentoloni delle salse oltre al maneggiamento della macchina dello spremi pomodoro. In quel caso di fronte alle famigerate “bottiglie di pomodoro”, tutti i membri della famiglia venivano chiamati a dare il loro contributo. I bambini, lavavano i pomodori o mettevano la foglia di basilico nelle bottiglie. Nel primo caso, i polpastrelli diventavano così rugosi da sfidare le mani di un centenario; all’inizio contenti di collaborare e stare con gli adulti poi sempre meno contenti perché il lavoro di meno prestigio dopo un po’ era noioso e sottraeva tempo al gioco. Con gli anni, i giorni della salsa diventavano più che un divertimento una vera e propria minaccia: “Domani niente mare, dobbiamo fare i pomodori!”. Sono trascorsi gli anni e la fatica di reperire la materia prima direttamente nei campi, la frustrazione di alcune annate in cui le bottiglie esplodevano, facendo diventare le cantine dei campi di guerra (ricordo ancora l’odore acido della salsa sparsa), il trasporto costoso o sempre più impegnativo ha fatto sì che molte persone non hanno più continuato questa tradizione. Al supermercato si reperiscono i prodotti con più facilità e forse anche ad un costo minore. Ma in fondo penso che ciò che rendevano speciali e uniche quelle conserve, quei sottaceti, quei pomodori fossero le relazioni di chi le faceva. C’era la trasmissione di saperi, gesti antichi, gesti pazienti, che scandivano i tempi giusti: quelli della maturazione dei frutti, degli ortaggi. C’era anche il senso del domani, un mettere in dispensa per l’inverno, c’era inoltre una pensare in condivisione: antipasti e sughi da cucinare o proporre in pranzi, cene, feste, un modo per ritrovarsi insieme. I prodotti dell’estate condivisi in famiglia che riscaldavano ancora il cuore oltre che deliziare il palato. Molte di queste tradizioni vanno scomparendo, è difficile avere il tempo di fermarsi per dedicarsi oggi a ciò che può servire domani; siamo sempre di corsa, in affanno presi da mille impegni; la salsa, l’ultimo dei pensieri. Nello stesso tempo in questi giorni di settembre nei supermercati abbondano barattoli vuoti da riempire, segno che ci sono ancora mani operose e volenterose che ostinatamente e in controtendenza conservano i prodotti. E poi ci sono loro i giovani, giovanissimi sempre più attaccati e affezionati ai nonni, che apprezzano spesso molto più dei figli (il salto generazionale evidentemente incide, forse non avendo avuto tempo di “odiare” da giovani queste usanze) che ringraziano e non vedono l’ora di gustare i manicaretti che i nonni preparano e che sembrano uscire dalla macchina del tempo. Spesso li immaginiamo capaci di apprezzare solo cibi spazzatura, panini, hamburger, ma non date per scontato che chiedendogli di scegliere tra questi ultimi e un piatto che attinge alle tradizioni famigliari sceglierebbero i primi! Come fruitori, sono degli ottimi buongustai, e allo stesso tempo gratificano l’esperienza, la pazienza e tutto l’amore che viene offerto loro come un dono sempre più raro e prezioso. Non dovremmo temere di coinvolgerli anche nella preparazione perché forse possiamo sembrare un po’ “vintage” ma alla fine lo stare insieme per parlare e raccontarsi forse anche attorno ad un tavolo tra un peperone e una melanzana rimane una ricchezza, un bene prezioso che può valere molto di più di quello che pensiamo. Certo non possiamo metterci al pari della tecnologia e non dobbiamo perché il mondo va avanti, però possiamo non dimenticare da dove arriviamo e cosa può renderci felici oggi come ieri.
PsiCHIcoline è una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
Una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
Scena 1. Girando tra le corsie di un supermercato, la mia attenzione è rivolta ad una signora che con in mano il suo biglietto numerato, attende il suo momento per essere servita in un banco del pesce. Si guarda attorno, forse pensando che questa volta farà presto perché è l’unica cliente in attesa di essere servita. Continuo la mia spesa, ma con la coda dell’occhio seguo la scena, per vedere se ciò che era già accaduto a me, settimane prima, fosse stato un caso o una modalità di vendita non attenta e poco professionale. Trascorre un bel po’ di tempo e la signora è ancora lì, ha lo sguardo dubbioso, interrogativo, la signora che dovrebbe servirla continua tutta affaccendata a lavorare nei suoi scaffali, toglie il pesce, lo sposta, lo etichetta, toglie il ghiaccio da terra… e la signora sempre lì, speranzosa, probabilmente con l’umore che sta iniziano a cambiare e il solito dilemma: resto o vado via? Mi ha vista o non mi ha vista?
Scena 2. La giornata sarà lunga e decido di prendermi un caffè, entro in un bar, il barista dietro il bancone mi vede entrare ma con uno sguardo perso in chissà quale galassia gira il volto da un’altra parte facendomi sentire trasparente. Pazienza, decido che sarò io ad accogliere lui e non viceversa, per cui esordisco con un “Buongiorno” scandito chiaro, ma niente, l’attenzione del barman vaga da un punto all’altro del bar, vedo i suoi pensieri racchiusi in bolle. Al terzo buongiorno ottengo finalmente il buongiorno di ritorno e poi… silenzio, lo sguardo del ragazzo cade finalmente su di me, ma lo sguardo rimane fisso: se fossi una persona insicura, mi cadrebbero tutte le certezze: “Devo avere sbagliato locale, ho il rossetto sbavato, che succede?” Rimango ferma in attesa, voglio dare una possibilità a questo giovane smarrito, ma niente, alla fine cedo e ordino io un caffè.
Scena 3. Entro in un negozio di alimentari e sento una commessa che dopo avermi salutata con un cenno del capo, continua a parlare al telefono con suo marito o forse ex marito, discutendo sull’organizzazione dei figli, accuse, i toni si accendono… “Scusi il disturbo” penso tra me e me, forse è meglio che ritorni, ma rimango lì, del resto sono abituata a gestire la privacy.
Scena 4. In un reparto di ospedale, una inserviente si intrattiene qualche secondo a parlare con una paziente per una richiesta di un’informazione da parte di questa ultima. Appena mette piede fuori dalla stanza arriva con piglio deciso il suo responsabile che noncurante di tutte le persone attorno la “asfalta” rimproverandola sui tempi della gestione del suo lavoro.
Scena 5. Gruppo di colleghe di un ambulatorio, iniziano a parlare delle ingiustizie e cattiverie del loro datore di lavoro, pettegolezzi su altri colleghi, racconti poco idilliaci sul dietro e davanti alle quinte, retroscena di ordinaria disorganizzazione. Il tutto condito su aneddoti di clienti/pazienti irrispettosi, maleducati, con un linguaggio decisamente colorito. Gli sguardi si spostano ogni tanto sul mio, come se ogni tanto un barlume di riservatezza riaffiorasse, salvo scomparire immediatamente nella animosità e perseveranza delle proprie rivendicazioni. Una di loro mi punta e capisco che cerca una sorta di solidarietà sulla parola, e mi vedo fare un cenno di assenso con la testa, ma in realtà sto pensando che non ho poi tutta questa voglia di ascoltare, fuori dal mio lavoro, i problemi e le rabbie altrui e soprattutto non lo trovo corretto.
Questi racconti hanno tutti un denominatore in comune, la mancanza di professionalità che ritrovo sempre più spesso in molti ambiti lavorativi. Le questioni personali poste in primo piano scalzano spesso l’ABC di ogni rapporto venditore/cliente, servizi/utenza, ecc. Stiamo attraversando un momento storico, di crisi, incertezze lavorative, precariato e non mi addentro su analisi sociologiche e politiche di cui non ho competenze. Spesso però mi interrogo su quanto siamo disposti a metterci in discussione su aspetti riguardanti il lavoro che non si riferiscono solo a fattori esterni, di cui sopra, ma anche a fattori interni. Negozi e attività che aprono e che chiudono dopo poco tempo sono sempre di più, altri che resistono nonostante le difficoltà e la concorrenza. Il mondo del lavoro è sicuramente cambiato rispetto al passato e riuscire a stare in piedi è una impresa ardua, ma le riflessioni di questo articolo sono proprio rivolte a chi nonostante le difficoltà desidera aprire una attività o rimanere in attività. Solo spunti di riflessione.
Innanzitutto dobbiamo parlare della professionalità che dovrebbe essere insita in qualunque attività lavorativa. La professionalità non è una qualità innata, ma può essere appresa, una competenza che possiamo suddividere in tre dimensioni tra loro interdipendenti: morale, professionale, relazionale.
La dimensione morale riguarda i valori morali di fondo e i principi etici di una persona che ispirano o dovrebbero ispirare il comportamento di qualsiasi operatore professionale. Il professionista si avvarrà di conoscenze specialistiche, di esperienze, di informazioni e background culturali, maggiori rispetto al suo interlocutore senza approfittare di tale conoscenze per ricavarne un beneficio personale. Inoltre grazie a tale sensibilità, egli comunica e si relaziona sempre con modalità simmetrica, cioè alla pari, privilegiando un linguaggio semplice, chiaro e alla portata di chi ha di fronte. Si instaurano così le premesse per un rapporto di reciproca fiducia, leale e trasparente, frutto dell’osservanza sistematica di un rigoroso codice deontologico, che il professionista si sente moralmente impegnato ad osservare dovunque e sempre.
Il secondo aspetto si riferisce alla dimensione professionale, la fase più operativa nella quale il professionista mette a disposizione degli altri tutta la sua conoscenza e il suo “saper fare”, per conseguire gli obiettivi di volta in volta concordati. In questa dimensione sono evidenziate quindi le competenze, l’esperienza professionale consolidata sul campo, l’intelligenza declinata nelle sue varie forme, la creatività. È quindi un momento cruciale in cui il “mestiere” viene fuori, prende forma e diventa sostanza. Questa seconda dimensione della professionalità è quella che mette in crisi i non professionisti, coloro che si improvvisano, e che sono spesso più interessati ad un facile e spesso illusorio guadagno che non ad aumentare le loro competenze ed esperienze. Spesso manca la passione, l’impegno, la capacità di autocritica ed il reale desiderio di sacrificio verso una professione che andrebbe arricchita ed implementata. Viene meno in sintesi la parte del “know-how” su cui poggia una moderna professionalità, intesa come l’insieme di saperi e abilità e competenze necessari per svolgere bene una determinata attività. In questa dimensione così concreta e dinamica, i soggetti privi di professionalità arrancano, riuscendo a conseguire risultati spesso mediocri, ben al di sotto delle aspettative di chi ha riposto in loro piena fiducia, ritenendoli professionisti credibili e affidabili.
La terza dimensione della professionalità, la più critica, e spesso la più sottovalutata, dandola erroneamente per scontata, è quella relazionale e umana; consiste nel “saper essere” veri professionisti. In realtà questa può essere considerata la la dimensione più complessa ed articolata. Molti delle situazione descritte all’inizio dell’articolo si riferiscono proprio alla difficoltà di tanti professionisti di muoversi dentro questa dimensione, che risulta essere in molti lavori una dimensione che può favorire o al contrario porre in secondo piano le altre due dimensioni. Ma in cosa consiste esattamente la dimensione relazionale? Possiamo parlare di capacità nella comunicazione interpersonale, competenze che hanno innanzitutto una base nel proprio repertorio di comportamento, di abilità sociali, di competenze emotive consolidate personali. Tali competenze non sono innate ma vengono prese nel corso della vita e non tutte le persone ne sono fornite. Tali competenze sono invece indispensabili nel professionista di oggi che vuole gestire attività, poiché servono per riconoscere, gestire ed esprimere in maniera socialmente accettabile pensieri, emozioni stati d’animo e per governare la complessità delle dinamiche relazionali. Nello specifico delle competenze possiamo ricordare tra le più importanti: l’empatia, la stabilità psicoemotiva, la padronanza di sé, la gestione dell’ansia e dello stress. Tra le varie competenze sopra citate merita sicuramente un’attenzione particolare l’empatia intesa come condizione “sine qua non” di qualsiasi attività professionale. Infatti è attraverso la capacità empatica, che il professionista si pone di fronte alla persona, al cliente, all’utente di un servizio. Una persona con i suoi problemi, i sui desideri, le sue aspettative, che vanno ascoltati, compresi, rispettati. La capacità di entrare nell’assetto emotivo di chi ci sta di fronte, impone anzitutto la capacità di mettere in secondo piano il proprio assetto emotivo, i propri problemi.
Non possono infine mancare altri due aspetti che riguardano l’entusiasmo e l’ottimismo che sono risorse mentali necessarie per operare con efficacia (raggiungendo l’obiettivo prefissato) ed efficienza (avere abilità nel raggiungere l’obiettivo impiegando le risorse minime indispensabili).
Queste due qualità permettono a chi le possiede di svolgere con impegno e passione qualsiasi lavoro, poiché un professionista coscienzioso e responsabile svolgerà la sua attività sempre al meglio per sentirsi in pace con se stesso, pienamente soddisfatto e realizzato.
La professionalità è dunque un costrutto globale, un insieme di fattori articolati e complessi fatti di conoscenze, competenze, strumenti e qualità umane. In un momento storico di così fragili certezze, di cambiamenti repentini, di mercati sempre più in concorrenza, l’aspetto della qualità del servizio, intesa come capacità di proporre le dimensioni sopra descritte, diventa imprescindibile. Laddove inoltre tante relazioni interpersonali sempre più sono veicolate dietro un monitor, una chat, uno schermo, la parte “umana relazionale” può fare ancora oggi la differenza. L’accogliere l’altro nei suoi bisogni con gentilezza, con un sorriso, con una buona capacità di problem solving, con serietà, con rispetto, con scrupolosità, può fare l’enorme differenza tra le tante offerte del mercato del lavoro. Ed infine un ultimo spunto che riguarda l’aspetto della curiosità e della formazione. Pochissimi lavoratori oggi, sono esenti dal rimanere sul mercato senza aggiornarsi, studiare, formarsi. Il mondo corre, va veloce, questo significa che un lavoro è spesso in continuo cambiamento, bisogna stare al passo con le novità, bisogna sapersi mettere in gioco, cercare stimoli e capire come migliorare le proprie conoscenze che non sono più statiche come nel passato, ma sempre in trasformazione.
“Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”.
(Charles Robert Darwin)
Bibliografia: “Vocabolario dell’intelligenza emotiva ed altro…” di Angelo Battista – Cacucci Editore 2011
Una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
La nostra testa è rotonda
per permettere ai pensieri di cambiare direzione.
(Francis Picabia)
Può essere capitato a molte persone di avere la sensazione, in determinati momenti della vita, ad esempio stress, preoccupazioni, eventi spiacevoli, di sentire nella testa pensieri negativi e ripetitivi, che non ti abbandonano mai. Questo tipi di pensieri vengono chiamati ruminazione e rimuginio.
Ma cosa si intende per ruminazione e rimuginio in psicologia?
Sono modalità di pensieri passivi, ripetitivi, spesso incontrollabili che a seconda del tipo di emozione a cui si riferiscono, assumono connotazioni e significati diversi. Possono essere considerati una risposta individuale che sottendono emozioni diverse tra loro, come l’ansia, la rabbia, e la depressione.
In particolare il rimuginio è legato all’ansia, la ruminazione è legata alla depressione, e la ruminazione rabbiosa, è legata alla rabbia.
La ruminazione è un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative. La ruminazione si focalizza principalmente sul passato o su stati emotivi presenti, al fine di gestire l’umore depresso o risolvere dei problemi causati da eventi accaduti nel passato. Vi è dunque una tendenza a spostare l’attenzione verso di sé, piuttosto che all’esterno. Le frase più tipiche di questo pensiero sono del tipo: “Perché a me” – “Cosa ho fatto per meritarmi questo?” – “Perché è andata così?” e molte altre.
I pensieri sono quindi ripetitivi, ossia sempre uguali, con una attribuzione negativa, incontrollabili, con frasi che susseguono in continuo, astratte poiché non conducono ad una soluzione del problema, ed infine molto dispendiose da un punto di vista energetico, ci sente cioè sfiniti, stanchi.
La ruminazione mentale sembra dunque una modalità usata più frequentemente nei disturbi depressivi, questa modalità produce invece un effetto del gatto che si morde la coda, poiché la persona depressa tende infatti a ruminare sui medesimi episodi negativi e spiacevoli che si sono verificati in passato attribuendosi eventuali colpe e responsabilità riguardo allatto negativo stesso. Ma questo logorio mentale, produce altri pensieri negativi, che inducono e mantengono la depressione stessa.
Molti ricerche confermano l’impatto negativo che la ruminazione ha sulla salute sia dal punto di vista fisico, sia psicologico.
Da punto di vista fisico possono insorgere problemi quali: insonnia, irrequietezza, mal di testa, nausea, tensione muscolare, danni cardiaci, ecc. Dal punto di vista psicologico le persone che ricorrono alla ruminazione sembrano avere un più alto livello di ostilità, di ansia, di depressione, di problemi del sonno, una bassa autostima e una tendenza ad avere una visone pessimistica degli eventi e della vita in genere; aumenta quindi la difficoltà ad affrontare con risorse più efficaci situazioni di stress.
Quando la ruminazione riguarda un pensiero ripetitivo negativo in cui aumenta l’emozione della rabbia, sia esterna sia quella rivolta a se stessi, possiamo parlare di ruminazione rabbiosa. Nella ruminazione rabbiosa il pensiero ripetitivo riguarda vicende passate che hanno suscitato rabbia; l’attenzione è focalizzata sulle espressioni rabbiose, e il pensiero tende a concentrarsi nell’immaginare scenari o situazioni alternative che sarebbero potute accadere, ma non sono accadute.
Va sottolineato tuttavia che la ruminazione rabbiosa nonostante aumenti gli stati emotivi di rabbia e l’attivazione fisiologica relativa alla stessa, non porta alla perdita di controllo sulle azioni, ma a una riduzione dello stato di benessere psico-fisico con conseguente abbassamento del tono dell’umore.
Il rimuginio è invece la tendenza a preoccuparsi sempre di cosa accadrà in futuro, ad anticipare mentalmente tutti i possibili scenari negativi, pensando al modo in cui possono essere affrontati. Il rimuginare è spesso accompagnato da emozioni di tipo ansioso, ma anche in questo caso invece di abbassare l’ansia, si produce l’effetto opposto; ossia si aggrava lo stato ansioso. La persona che rimugina ha paura che possa avverarsi sempre il peggio, e utilizza tale modalità con la sensazione che pensare e ripensare al problema lo aiuterà a trovare la soluzione. Tale meccanismo a volte è più difficile da cambiare poiché chi lo utilizza pensa che abbia una valenza positiva, aiutandolo nella risoluzione di problemi. In realtà il rimuginare porta le persone ad essere bloccate emotivamente in un sistema d’ansia e insicurezza con una falsa percezione di aver risolto i problemi.
Se questi meccanismi sono utilizzati in modo continuativo e si inizia ad essere consapevoli dell’impatto che hanno nella qualità della propria vita, si può decidere di intraprendere un percorso psicologico, per individuare i meccanismi sottesi che lo hanno generato, al fine di modificare questo stile di pensiero con altre modalità più funzionali e costruttive.
Una rubrica che nasce dal desiderio di avvicinare maggiormente le persone alle tematiche psicologiche. Conoscere e conoscersi per considerare i problemi, le paure, le sofferenze come opportunità, spesso scomode e sgradite, di fermarci e guardarci dentro per trarre nuova forza, consapevolezza, speranza e fiducia.
A cura della Dott.ssa Monica Rupo
Psicologa – Psicoterapeuta
Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si era visto in estate,
vedere di giorno quel che si era visto di notte.
(Josè Saramago)
Mi presento, mi chiamo Monica Rupo e sono una Psicologa Psicoterapeuta, sono specializzata in Psicoterapia Psicoanalitica Individuale dell’Adulto conseguito presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Torino. Ho lavorato per molti anni nel settore delle dipendenze, nello specifico nell’alcol dipendenza, da cui ho attinto un bagaglio di esperienza insostituibile. In questi ultimi anni lavoro come libera professionista e mi mi occupo di aspetti che riguardano la sfera emotiva e relazionale che le persone hanno nei i propri contesti di vita, coppia, famiglia, scuola.
Lavoro con adulti, coppie, adolescenti e genitori di figli adolescenti. In questi anni sono stati fatti molti passi avanti nell’accettazione della Psicologia come scienza che permette di aiutare le persone nei momenti di difficoltà e di sofferenza; che si occupa dunque dell’uomo nella sua globalità e non soltanto negli aspetti patologici del suo comportamento. Questa rubrica rappresenta per me l’occasione di unire due grandi passioni, la psicologia e la lettura/scrittura. Cito una frase di Tiziano Terzani che dice: “Il rispetto nasce dalla conoscenza e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo.” Perché per conoscere più a fondo noi stessi e gli altri dobbiamo andare oltre le apparenze, oltre la superficie. Dobbiamo dotarci di strumenti che la conoscenza può darci per non rimanere fermi, fissi nelle nostre impressioni, non siamo un fermo immagine ma un movimento che danza e fluttua, cambia e si trasforma nel tempo. Siamo immagini a colori, in bianco e nero, opache, cangianti, nitide, e sfuocate a seconda del tempo, a seconda di come stiamo. Dico spesso ai miei pazienti che uno degli obiettivi della psicologia è capire come funzioniamo, con noi stessi e nei confronti degli altri. Capire ed individuare i meccanismi interiori e relazionali che non funzionano e partono da soli, come una sorta di pilota automatico che si innesca senza che ce ne rendiamo conto, diventare più consapevoli di tali meccanismi ci da la possibilità di tornare in cabina di pilotaggio e riprendere la rotta e la destinazione che scegliamo per noi.
Allacciate le cinture…si parte e buon viaggio!